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 2015  maggio 14 Giovedì calendario

Le Province smantellate continuano a costare 7 miliardi di euro l’anno. In pratica ad essere cancellate sono state solo le scritte sui palazzi. Così la Corte dei Conti demolisce la prima riforma dell’era Renzi

C’è una notizia buona e una cattiva. La prima riguarda il Pil, che nei primi tre mesi dell’anno è salito dello 0,3 per cento. Un aumento minimo, quasi impercettibile, ma pur sempre un aumento, che viene dopo anni di Prodotto interno lordo negativo. Dal 2011 ad oggi nel complesso si è perso per strada circa il dieci per cento del fatturato Italia e se si confronta il dato trimestrale di quest’anno con quello di quattro anni fa si scopre che in valore assoluto mancano ancora una ventina di miliardi. Non solo: a voler indagare bisognerebbe scorporare i diversi effetti che hanno fatto crescere il Pil, cercando di capire se si tratti di una vera ripresa o se non sia la conseguenza di una serie di fattori esterni all’economia italiana, tipo il rapporto di cambio tra dollaro ed euro o la manovra finanziaria di Mario Draghi. Ciò detto, quali che siano le cause del passettino in avanti del nostro Prodotto interno lordo, la notizia resta pur sempre positiva e c’è motivo di rallegrarsi e di sperare che i prossimi mesi vadano meglio e confermino la tendenza di inizio anno. La notizia negativa riguarda invece la spending review e per essere più precisi la misura che per prima avrebbe dovuto dare un taglio secco delle spese della pubblica amministrazione. Ricordate l’abolizione delle Province? Libero per anni ne fece una questione di primaria importanza, arrivando anche a raccogliere le firme tra i nostri lettori per chiedere la chiusura di enti giudicati inutili e costosi. Un anno fa, dopo molte pressioni, l’addio alle Province è diventato legge per volere dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, oggi ministro ai Lavori pubblici, Graziano Delrio. O meglio: il Parlamento ha votato una legge che prevede l’abolizione dei Consigli provinciali, la cancellazione nominale dell’ente, ma lascia intatte le funzioni devolvendole alle Regioni. In pratica dai palazzi che prima ospitavano le Province sono sparite le targhe con scritto Provincia e, in alcuni casi (Milano ad esempio), sono state sostituite da quelle delle Città metropolitane. Il che ci ha confortato nell’idea che della riforma abbiamo sempre avuto, ovvero che tagliasse poco e nulla e che alla fine consentisse di risparmiare gli spiccioli. Perché se non è zuppa è pan bagnato, e cambiando solo il nome o cancellando il Consiglio provinciale non si snellisce un bel niente. Tasse e burocrazia restano invariate.
Fino a ieri però questa era una nostra opinione. Temevamo che fosse così, ma non ne avevamo la prova. Trascorso un anno dall’approvazione della legge, una delle prime dell’Era renziana, salutata come ogni cosa fatta dal presidente del Consiglio come un fatto epocale, si cominciano però a tirare le somme della riforma e i conti non tornano. Precisiamo subito a scanso di equivoci che a dirlo non siamo noi di Libero – che potremmo facilmente essere additati dal premier come gufi o rosiconi -. No, a dirlo, anzi a scriverlo, è la Corte dei conti, ossia la magistratura contabile. La quale, dopo aver analizzato i bilanci di tutte le ex Province ha emesso la sentenza. Il malloppo è cospicuo e consta di 160 pagine, ma quelle che interessano sono poche e ancor meno lo sono le cifre. Due sono quelle che ci riguardano: le entrate e le uscite. Le prime sono diminuite di molto, quasi un miliardo e 200 milioni in un solo anno, per effetto dei tagli lineari del governo, non certo per la riduzione delle imposte provinciali, che al contrario restano alte. Il secondo dato, quello delle uscite, non va di pari passo con le entrate e infatti si riduce di appena 287 milioni, meno del 4 per cento del totale. Segno evidente che, nonostante la riforma, le Province continuano a costare una montagna di quattrini ai contribuenti. Risultato, se il saldo della gestione della parte corrente era fortemente positivo (1,4 miliardi nel 2013), nel 2014 resta positivo ma si riduce di due terzi, superando di poco il mezzo miliardo. Tutto ciò fa dire ai giudici con la calcolatrice che c’è un deterioramento dai toni acuti del quadro finanziario. Testuale: «La variazione percentuale di questo margine, misurata tra i dati relativi agli esercizi 2011-2014, presenta una forte flessione in termini percentuali».
Ad andar male sono soprattutto le ex Province isolane, dove si spende più di quanto si incassi, ma in generale nessuna è messa bene. Anche perché i dirigenti degli enti «soppressi» sono i più pagati della Pubblica amministrazione. Tanto che la Corte dei conti segnala «il progressivo deterioramento della capacità di finanziare le spese correnti con le entrate correnti. Soprattutto perché nel triennio 2015-2017 il risparmio previsto a carico degli enti soppressi è di un miliardo l’anno». Calcolato che oggi le disciolte Province costano 7 miliardi significa che entro il 2019 le uscite dovrebbero quasi dimezzarsi. Invece, il sospetto è che alla fine si dimezzerà solo la pazienza degli italiani di sopportare di essere presi per i fondelli.