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 2015  maggio 14 Giovedì calendario

Il governo Renzi va alla battaglia con la Ue sul piano salva-banche: «Senza credito e investimenti crescita con il fiato corto». La Commissione europea denuncia il peso delle sofferenze bancarie sull’economia italiana ma allo stesso tempo rifiuta ogni proposta di garanzia pubblica per le perdite. L’esecutivo punta su questa contraddizione per forzare i tempi

La recessione è sempre orfana, ma qualunque ripresa agli inizi ha sempre molti padri. L’Italia rivede il primo trimestre di vera crescita dal 2011 e deve ringraziare in primo luogo il ministro del petrolio saudita Ali Al-Naimi: rinunciando a novembre scorso a un taglio della produzione dell’Opec, il cartello del greggio, il vecchio negoziatore di Riad ha accelerato un crollo del prezzo del barile che spiega molto dei maggiori consumi delle famiglie italiane e francesi fra gennaio e marzo.
L’Italia deve anche ringraziare un uomo seduto nel suo ufficio a Francoforte: un anno fa Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha avviato un avvicinamento agli interventi monetari riducendo il valore dell’euro, dando fiato all’export e limando i tassi d’interesse per tutti i debitori.
Quel che conta per i prossimi passi di questa ripresa sono però soprattutto le sue radici italiane. Gli 80 euro concessi ai redditi medio-bassi, al costo di dieci miliardi l’anno, per ora hanno aumentato più gli affari dei gestori di risparmio che quelli dei commercianti o dei produttori del made in Italy. Le famiglie per lo più hanno messo quei soldi da parte. Altre due misure della Legge di stabilità stanno invece giocando un ruolo nel ritorno di fiducia in questi mesi: la riduzione dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive, e gli sgravi ai contributi sui nuovi contratti di lavoro permanenti. Quei due passi hanno liberato cassa fresca per le aziende, spiega Loredana Federico di Unicredit, permettendo loro di iniziare a rinnovare i macchinari e gli impianti.
Il resto, il vero ritorno degli investimenti che serve a radicare la ripresa, si gioca adesso fra l’Italia e Bruxelles. Le imprese non possono tornare a progettare i prossimi anni senza il sostegno delle banche. Eppure la disponibilità di queste ultime, specie gli istituti piccoli e medi, dipende a sua volta dal tipo di accordo che il governo riuscirà a trovare in Europa. Le tensioni su questo fronte in questi giorni non mancano, anche se ieri la Bce ha dato il suo (tardivo) via libera al piano di ricapitalizzazione del Monte dei Paschi. E anche se, in attesa delle elezioni regionali di fine mese, Matteo Renzi ha scelto di non parlare di questo argomento praticamente mai. La Commissione Ue ieri invece lo ha fatto, nelle sue raccomandazioni all’Italia: «Dalla fine del 2008 la quota dei crediti deteriorati del settore bancario è aumentata vertiginosamente, soprattutto per l’esposizione delle banche verso le imprese». E poi ancora: «Il tasso di riassorbimento delle attività deteriorate è stato finora troppo basso, in parte a causa del sottosviluppo del mercato italiano dei crediti deteriorati». Di conseguenza, continua la nota di Bruxelles, «sono necessarie ulteriori misure di ristrutturazione e consolidamento del settore bancario per sostenere la ripresa dell’economia».
In altri termini, la Commissione chiede all’Italia di fare esattamente ciò su cui, per il momento, proprio Bruxelles solleva obiezioni: una «bad bank», un veicolo che aiuti le banche liberarsi dei vecchi prestiti inesigibili vendendoli a prezzi scontati. Senza questo, il nuovo credito alle imprese continuerà a costare più che in Spagna, Francia e Germania, come già sta succedendo oggi, quindi gli investimenti e la ripresa italiana resteranno più deboli che altrove.
Nasce da qui il progetto del governo. Prevedeva che i crediti deteriorati venissero acquistati da una “bad bank” pubblico- privata: doveva esserci una partecipazione pubblica al capitale da 3 miliardi, più garanzie da non oltre dieci miliardi in caso di perdite su quei pacchetti di prestiti. Renzi per ora ne parla poco perché l’idea di usare denaro del contribuente per le banche, benché necessaria, è esposta agli attacchi dei mille populisti d’Italia.
Bruxelles invece si oppone: mettere denaro pubblico in quella “bad bank” equivale a fornire aiuti di Stato alle banche, quindi queste ultime andrebbero ristrutturate. Non sempre la Commissione è così dura con altri governi: Erik Nielsen di Unicredit stima che le banche tedesche godano per esempio di garanzie pubbliche esplicite per 250 miliardi di euro (in realtà già da prima che le attuali regole sugli aiuti di Stato entrassero in vigore). Eppure Bruxelles non ha mai sollevato problemi con Berlino. Anche per questo la partita della «bad bank» nei prossimi mesi non servirà a misurare solo le possibilità di ripresa dell’Italia: darà anche la misura del suo vero peso specifico oggi in Europa.