la Repubblica, 14 maggio 2015
Da Saddam Hussein a Bin Laden, quella caccia infinita all’uomo. Lo schema della decapitazione di un’organizzazione era efficace con i regimi piramidali, ma non funziona con i movimenti diffusi. Vedi il caso dell’Isis
La caccia infinita ai generali del terrorismo islamico ha abbattuto un’altra preda, il reggente dell’Is, il turkmeno al-Afri in Iraq, e resta, appunto, infinita. Come l’uccisione di Osama bin Laden non ha stroncato Al Qaeda, così la morte di questo cinquantenne professore di Fisica convertito alla predicazione della jihad violenta e succeduto al leader menomato o morto dello Stato Islamico, al-Baghdadi, non cambierà molto, o nulla, nella virulenza e nella minaccia che il fanatismo armato porta. Se ormai vent’anni di “Guerra al Terrore”, lanciata da Clinton negli Anni ‘90 con i missili Cruise, ripresa su catastrofica scala industriale da Bush dopo il 2001 con l’invasione dell’Iraq e condotta a colpi di droni da Obama, hanno dimostrato qualche cosa, questa è la costante capacità del serpente di rigenerare anche la propria testa. Morto un leader, se ne fa un altro. La strategia della caccia all’uomo, che ebbe la propria massima sanzione nell’“Osama Vivo o Morto” proclamato da George W. Bush sulle rovine delle Torri Gemelle, tradisce la debolezza intrinseca di una guerra condotta a distanza, con criteri da operazione di polizia, sul genere dei “Most Wanted”, dei massimi ricercati dello Fbi. È una debolezza insieme culturale e operativa, che riproduce una concezione verticistica e primitiva del nemico, secondo lo schema della decapitazione che produce il suo collasso. Ma quello che era vero per regimi strutturati e piramidali, come il Nazismo o il Fascismo, che non avrebbero saputo sopravvivere all’eliminazione dei loro duci, non è necessariamente vero per movimenti diffusi e metastatizzati come queste amorfe formazioni.
Ma chi si assume il ruolo di combattente contro il terrorismo, come fa l’America, non ha scelta. Operativamente, è impossibile occupare, rastrellare e bonificare territori che si estendono dall’Hindukush in Afghanistan alle sponde dell’Atlantico, anche se lo si volesse. Culturalmente, nella sempre profonda ignoranza di fenomeni che sono più temuti che conosciuti, l’illusione è sempre nel credere che, eliminando i predicatori, si cancellino i fedeli e con essi le ragioni che li hanno generati e resi affascinanti. Una forma di condizionamento ideologico vista all’opera anche durante la stagione illusoria delle “Primavere Arabe”, quando gli Stati Uniti, e molti di noi con loro, sperarono che, deposti o uccisi i tiranni, la tirannia della violenza antidemocratica e incivile, l’incultura democratica che li aveva puntellati, sarebbe morta con loro.
Infatti la pericolosità e la diffusione dell’aggressività terroristica non sono diminuite, ma al contrario cresciute con l’aumento delle prede catturate o abbattute nella Grande Caccia Grossa globale, insinuando il sospetto dell’eterogenesi dei fini, che sia proprio la personalizzazione della lotta a favorire il diffondersi dell’adesione. La presenza di cospicue taglie, 25 milioni di dollari per Osama, sette milioni per Al Afri esclude che le soffiate vengano da “pentiti del terrore” e semmai insinuano il sospetto di rivolte interne e lotte di successione, ben retribuite.
Eppure, la lista dei trofei che i cacciatori possono esibire è ormai lunga, dalla testa più vistosa, quella di Osama abbattuto in circostanze di cui ora addirittura qualcuno comincia a dubita- re, è cospicua. È stato ucciso Abu Musab al-Zarkawi, considerato come il proconsole di Osama in Iraq alla guida di Amaat al-Tawîd wal-Jihâd, Gruppo per l’Unità e l’Unicità di Dio. È in fin di vita, o incapacitato per traumi alla spina dorsale, il fondatore e ispiratore dell’Is, Al Baghdadi. Scomparso da tempo è il riconosciuto “braccio destro” di Osama, Al Zawahiri, il pediatra egiziano che alcune voci dicono morto proprio in coincidenza con il raid di droni che uccise il cooperante italiano Lo Porto. Sempre attacchi di aerei telecomandati hanno eliminato, appena una settimana fa, Nasr Ibn Ali al-Ansi, generalissimo della sezione yemenita di Al Qaeda, Aqap, che rivendicò orgogliosamente il massacro di Charlie Hebdo a Parigi.
E se anche di queste morti è sempre lecito dubitare nel vortice polveroso e surriscaldato di notizie mai verificabili e di propaganda, come dimostrò la leggenda del Mullah Omar che fug- giva in motorino con le vesti al vento, altre sono indubitabili, quanto i loro effetti esattamente opposti alle attese. È indubitabile la morte di Saddam Hussein, oscenamente, platealmente strangolato dopo un processo farsa, che risultò odioso anche alle sue vittime. Assassinato fu Muhammar Gheddafi, linciato nella rivolta di Tripoli pilotata dai servizi europei e americani, due personaggi che a lungo erano stati indicati dalla propaganda, soprattutto Saddam, come «la più pericolosa arma di distruzione di massa», secondo una definizione dell’allora primo ministro italiano Berlusconi.
La colossale asimmetria di una guerra a distanza, combattuta fra la più sofisticata delle tecnologie di morte e la più rudimentale, la lama nella gola, rende anche le apparenti battaglie vinte – come l’uccisione di un sanguinario imbonitore polverizzato insieme con i fedeli in una moschea – potenziali sconfitte nella sola battaglia decisiva e destinata a protrarsi per anni. Quella per convertire non i capi, ma i loro seguaci, alla religione della civiltà laica.