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 2015  maggio 14 Giovedì calendario

Parla l’infermiere di Sassari ricoverato allo Spallanzani dopo aver contratto Ebola in Sierra Leone: «Pronto a combattere contro il virus». Recluso in 25 metri quadri, come un detenuto. In Sardegna i tre familiari che sono entrati in contatto con lui sono stati posti in isolamento: al momento nessun sintomo

In una foto su Facebook compare sorridente e con la maglietta del 118 di Cagliari; in un’altra, di due settimane fa, si vede l’operazione di «vestizione», mentre indossa la tuta isolante nel centro anti Ebola di Emergency a Goderich, in Sierra Leone; «pochi giorni all’alba?» gli aveva chiesto qualche giorno prima un amico. Sì, perché per S., l’infermiere sardo che ha contratto l’Ebola, il colpo a tradimento del virus è arrivato proprio nel finale, visto che il 6 maggio si era conclusa la sua missione in Sierra Leone ed era iniziato il viaggio di ritorno. Ma da conoscitore delle insidie dell’Ebola, quando è arrivato a casa, a Sassari, S. ha deciso di isolarsi. Eppure, stava bene, come avevano dimostrato i controlli prima della partenza. La febbre è arrivata dopo, il 10 maggio, quando S. ha chiamato i colleghi del 118 di Sassari e ha spiegato loro: «Venitemi a prendere, ho la febbre e sono appena tornato dalla Sierra Leone». Sono scattate le procedure di emergenza, è stato ricoverato prima nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Sassari. In fondo, visto che in Sierra Leone ormai i malati di Ebola sono pochissimi, nessuno pensava davvero che il problema potesse essere quello. Invece, il responso dalla Spallanzani, dove erano stati inviati i campioni di sangue, non ha lasciato dubbi: è Ebola. Da ieri mattina S. è in isolamento nell’istituto romano, punto di riferimento nazionale, dove già è stato curato con successo un altro operatore di Emergency, il medico siciliano Fabrizio Pulvirenti. Come sta? Il primo bollettino medico spiega che ha la febbre, ma è lucido, collaborativo. «Ha iniziato un trattamento antivirale specifico con un farmaco non registrato autorizzato con ordinanza da Aifa su indicazione del ministero della Salute». S. è un tipo forte, dicono ad Emergency, e a chi gli ha parlato ha spiegato: «Sono pronto a combattere questa battaglia».
LE MISURE IN SARDEGNA
Non solo: in Sardegna, in isolamento ora vi sono anche le tre donne – la madre e due sorelle – con il quale a Sassari S. è entrato in contatto. «Sono state prese tutte le misure opportune al momento del rientro dell’infermiere dalla Sierra Leone e quindi per ora non esiste nessuna prova del contagio di altre persone. Il tasso di rischio è molto basso». C’è un’altra incognita: il 6 maggio l’infermiere sardo è salito su tre aerei di linea, prima da Freetown a Casablanca, poi da Casablanca a Fiumicino, infine da Fiumicino ad Alghero. Gli altri passeggeri dovranno essere sottoposti a controlli? «No – assicura Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani – l’Ebola diviene contagioso solo se si sono manifestati i sintomi. Non è il caso dell’infermiere, che quando è partito stava bene. Ora da noi sarà seguito con la stessa attenzione che abbiamo avuto per Pulvirenti». Ma Ippolito invita a non fare paralleli tra i due casi: «Non esiste un criterio unico per la gestione di questi pazienti ed ogni caso è, dunque, un caso a sé. Questa volta sono preoccupato come lo ero per Fabrizio Pulvirenti: la febbre da Ebola è una malattia grave; ovviamente speriamo si risolva favorevolmente anche in questo caso, ma va detto che è una patologia estremamente seria».

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Ieri mattina S., l’infermiere sardo contagiato dall’Ebola, è entrato nella stanza ad alto isolamento dello Spallanzani. Ha subito capito che la sua vita, per molti giorni, sarà racchiusa in un quadrilatero di cinque metri per cinque. Ha visto il letto singolo su cui avrebbe trascorso la sua prima notte. Alla sua sinistra c’è una finestra, che però non si affaccia sull’esterno, ma su un corridoio della palazzina dello Spallanzani riservata al «paziente due». Quel corridoio viene definita l’area pulita, da dove entrano i medici e gli infermieri che si prendono cura di lui. Alla destra del letto, invece, c’è una porta verso l’«area sporca», quella dove gli operatori escono. Funziona così: entrano da una parte, naturalmente indossando le tute e gli scafandri isolanti, escono dall’altra, per svestirsi e lavarsi. In mezzo resta quella stanza, necessariamente piccola. C’è solo un’altra porta, quella del bagno.
IL MONDO FUORI
E il percorso tra il letto e il bagno, di pochi metri, è l’unico che S., fino a quando le condizioni di salute glielo consentiranno, potrà utilizzare per sgranchirsi le gambe. Infine, nella parete di fronte al letto c’è un televisore, sul quale, chissà, ieri sera S. ha assistito alla semifinale di Champions, se la stanchezza non ha avuto il sopravvento. Quel televisore non è l’unico collegamento con l’esterno. Se vuole, S. può usare smartphone e tablet: non c’è una rete wi-fi, ma l’isolamento comunque non blocca la rete 3g. Se seguirà l’esempio del “paziente zero”, l’altro operatore di Emergency che in Sierra Leone contrasse l’Ebola e che dopo 38 giorni di isolamento ha vinto la sua battaglia, rimbalzerà tra la pagina di Facebook con cui mantenere i contatti, magari anche con i colleghi rimasti in Sierra Leone, o con gli amici e i familiari in Sardegna (la vita di S. è divisa in due città dell’isola, in una vi è nato, nell’altro vi lavora), e i siti di informazione che parlano anche della sua storia.
C’è un altro elemento che colpisce, anche se razionalmente è evidente che non si può fare diversamente: il bunker in cui è ricoverato S. non è inaccessibile solo dall’esterno, tanto che ci sono le guardie giurate a vigilare che entri solo chi è autorizzato. No, dal bunker non si può neppure uscire, le porte sono chiuse. Ovviamente S. non ha alcuna intenzione di violare l’isolamento, da professionista del settore conosce la necessità di queste misure, tanto che quando arrivò a Sassari il 7 maggio dalla Sierra Leone fu lui stesso, precauzionalmente, a mettersi in una sorta di auto isolamento.
LE PRECAUZIONI
Ma le porte sono chiuse perché bisogna evitare che ad esempio un farmaco destabilizzante provochi qualche reazione sbagliata e incontrollata che porti il paziente a tentare di fuggire. Pulvirenti ricorda: «Le porte devono essere chiuse, è giusto che sia così: quando stavo male, proprio a causa di un farmaco, ebbi un incubo e tentai di allontanarmi, ovviamente senza rendermene conto. Per fortuna il fatto che le porte erano sigillate me lo impedì».
LO STAFF
Da ieri gli unici volti che S. vede e con cui dovrà prendere confidenza, sono quelli della task force che si occupa solo di lui. In pratica sono 11 medici specializzati in infettivologia, 5 operatori di rianimazione, 14 infermieri e 23 responsabili di laboratorio. Certo, fino a quando sarà lucido, S. scambierà quattro chiacchiere con loro, chiederà come vanno le cose fuori di lì. Ma poi come trascorreranno i giorni in quella stanza 5 per 5? «Io ricordo che leggevo molto: libri, pubblicazioni scientifiche, prendevo qualche appunto. Devi cercare di mantenere la mente lucida. Fino a quando le forze te le consentono, perché poi quando stai male allora è tutta un’altra storia», spiega Pulvirenti.