Corriere della Sera, 13 maggio 2015
Nessun colpevole per la scorta mancata a Marco Biagi. Le accuse per Scajola e De Gennaro sono state prescritte e l’indagine è finisce in archivio. La famiglia: «Ora gli indagati non dovranno più confrontari con la giustizia ma con le proprie coscienze»
L’indagine finisce in archivio, perché l’eventuale reato è prescritto dal lontano 2008. Dunque non ci saranno ulteriori accertamenti da parte del tribunale dei ministri sugli indagati Claudio Scajola – ministro dell’Interno al tempo dell’omicidio di Marco Biagi, assassinato dalle nuove Brigate rosse il 19 marzo 2002 – e di Gianni De Gennaro, all’epoca capo della polizia. È la vicenda della mancata assegnazione della scorta al professore bolognese consulente dell’ex ministro del Lavoro Roberto Maroni, protetto in ogni suo spostamento dopo il ritorno delle Br con l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona (maggio 1999), ma successivamente privato di qualsiasi sorveglianza a seguito della revisione dell’intero «sistema scorte», decisa dal Viminale all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001; ciò nonostante le minacce segnalate dallo stesso Biagi e gli allarmi contenuti in alcune analisi dei servizi segreti sul pericolo di nuovi attacchi brigatisti.
Il professore fu ucciso davanti alla sua abitazione, di sera, mentre rientrava dal lavoro in bicicletta. Di qui il reato di cooperazione in omicidio colposo, ipotizzato dalla Procura di Bologna nei confronti dei vertici politico e tecnico della sicurezza quando ha trasmesso il fascicolo al tribunale dei ministri. Ma l’organismo competente per i reati commessi da membri del governo ha ritenuto di non dover procedere oltre perché «l’evidenza dell’estinzione del reato rende manifesta la superfluità di ogni attività di indagine», come riassume una nota di agenzia. «Era la nostra richiesta», commenta il procuratore di Bologna Roberto Alfonso, nonostante la realtà sia un po’ diversa. I pubblici ministeri, infatti, avevano sollecitato il tribunale dei ministri a «procedere, nelle forme di rito, all’interrogatorio degli stessi (Scajola e De Gennaro, ndr ), anche per sapere se intendano o meno avvalersi dell’intervenuta prescrizione». Cosa che il tribunale non ha fatto. Anche perché gli avvocati Franco Coppi e Francesco Bertorotta, difensori dell’ex capo della polizia, avevano inviato una memoria per ricordare che, secondo i codici e la giurisprudenza, gli indagati non possono rinunciare alla prescrizione, facoltà concessa solo agli imputati, cioè coloro nei cui confronti è già stata esercitata l’azione penale.
De Gennaro e Scajola non sono in questa situazione, e il tribunale dei ministri non ha potuto che prenderne atto. Nel corso della lunga indagine – avviata dopo la scoperta di nuovi documenti nell’archivio dell’ex segretario di Scajola, durata circa un anno e definita «surreale» dai legali dell’ex ministro, Giorgio Perroni e Elisabetta Busito – i pm bolognesi hanno raccolto decine di testimonianze ma non quelle di Scajola e De Gennaro, iscritti sul registro degli indagati una settimana prima della richiesta di archiviazione.
Quella chiusa dal tribunale dei ministri è la seconda inchiesta sulle presunte responsabilità di chi non fornì adeguata protezione a Biagi; già nel 2004 i vertici della polizia di prevenzione vennero prosciolti perché non c’erano elementi sufficienti a sostenere l’accusa. «La prescrizione consentirà agli indagati di non confrontarsi con la giustizia e la realtà dei fatti», commenta il legale della famiglia Biagi, Guido Magnisi, che fa sua la considerazione dei suoi assistiti: «Per citare Jung, agli stessi soggetti coinvolti resta il doloroso e sofferente confrontarsi con le proprie coscienze».