La Stampa, 12 maggio 2015
Il parto anonimo, il diritto di risalire alle proprie origini e la nuova legge che instaura per il futuro un regime equilibrato di confronto tra le due esigenze. Ma che per il passato non deve valere
In Italia una madre può partorire senza che rimangano annotate le sue generalità nel certificato che attesta la nascita.
Si tratta del parto anonimo, che impedisce si instauri il rapporto di filiazione tra madre e figlio e che operi la presunzione di paternità del marito della donna, se questa è coniugata. Nel caso di parto anonimo ha immediato inizio la procedura di adottabilità del nato, che troverà nell’adozione chi si curerà di lui. Della madre possono rimanere registrate solo informazioni mediche, non identificanti, che potrebbero essere utili in futuro per la salute del figlio. La ragione che spiega una simile, singolare legislazione risiede nell’intenzione della legge di favorire la conclusione della gestazione con un parto normale, in condizioni sicure, senza che l’impossibilità della madre di allevare il figlio la inducano a scelte drammatiche, come sarebbero l’abbandono o persino l’uccisione del neonato, oppure il ricorso ad un aborto fuori dalle condizioni previste dalla legge. L’intenzione dunque riguarda la protezione del figlio, insieme e forse più ancora che quella della madre. La quale può trovarsi in una situazione di grave difficoltà, la cui natura può essere diversissima, tanto da non poter essere definita dalla legge. Si comprende quindi che la scelta sia lasciata alla valutazione e alla coscienza della madre. Sarebbe però bene che ad essa, spesso sola e in condizioni psicologiche di grave abbattimento, fosse sempre assicurata nell’ospedale un’adeguata assistenza e, prima di tutto, una completa informazione su quanto la legislazione italiana e il suo sistema sanitario assicurano a madre e figlio (anche alle madri straniere, indipendentemente dalla loro condizione legale).
Questo sistema del parto anonimo ha una lunghissima tradizione in Italia e in qualche altro Paese d’Europa, come, ancor oggi, la Francia e il Lussemburgo. L’Italia non l’ha toccato nemmeno in occasione della grande riforma del diritto di famiglia del 1975 o di quelle successive. Tuttavia in anni recenti una novità è venuta emergendo, da quando nella sensibilità sociale e nel quadro giuridico europeo ha cominciato a essere riconosciuto, come diritto fondamentale della persona, quello di risalire alle proprie origini. La questione è dunque divenuta più complessa. Al diritto della madre e alle ragioni generali che spingono a proteggerlo, si è aggiunto e contrapposto il diritto del figlio. Si tratta di situazione che è difficile da regolare con la legge, poiché richiede bilanciamenti e contemperamenti che tengano conto del carattere specifico e concreto della singola vicenda. E dunque se ne lascia la gestione ai protagonisti di essa, se necessario con l’intervento del giudice. Si usa dire che la soluzione da cercare è quella che meno comprime un diritto per lasciar spazio all’altro. Ma è più facile dirlo che farlo, poiché alla fine uno dei diritti dovrà cedere il passo. Tuttavia il rispetto delle posizioni che assumono e mantengono i titolari dei diritti contrapposti non esclude l’utilità di procedure che favoriscano la soluzione di un conflitto, che può essere solo iniziale e sciogliersi nel confronto delle rispettive esigenze. Sono quindi inaccettabili previsioni legislative che puramente e semplicemente neghino un diritto e affermino senza limitazione la prevalenza dell’altro: nel nostro caso il diritto della madre al segreto oppure il diritto del figlio a superarlo.
Prima nei confronti della Francia e poi anche dell’Italia, la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto che deve essere prevista dalla legge una ragionevole soluzione, che non neghi completamente l’uno o l’altro diritto. E la Corte Costituzionale ha adottato la stessa linea, stabilendo che la legge vigente, per la sua assolutezza senza eccezione, è irragionevole e viola il diritto del figlio che voglia conoscere la sua origine. La Corte ha indicato che la legge deve prevedere un procedimento con cui il giudice possa, su richiesta del figlio, interpellare la madre per un’eventuale revoca della scelta di rimanere anonima. E ora, in questi giorni, la Camera dei Deputati esamina progetti di legge che tentano di definire la difficile questione. Nel testo si prevede che il Tribunale dei minorenni cui si è rivolto il figlio, con modalità che assicurino la massima riservatezza, anche avvalendosi del personale dei servizi sociali, contatta la madre senza formalità per verificare se intenda mantenere l’anonimato.
Il diniego di svelare la propria identità resta dunque insuperabile, ma la madre viene a conoscere che c’è un figlio che cerca di sapere da chi è nato, con tutto quello che sul piano personale ciò può significare. Sul piano personale soltanto, perché sono comunque escluse conseguenze sullo stato legale del figlio e rivendicazioni di carattere patrimoniale o successorio. Come si vede la soluzione scelta non tende ad imporre alcunché, sceglie la strada della informazione e del confronto delle ragioni, mediato dal giudice. Nella massima riservatezza, come stabilisce il progetto di legge. Ma è proprio questa condizione, così difficile da assicurare in concreto, che pone problema, poiché nel corso del tempo la madre ha probabilmente sviluppato una condizione personale o familiare che potrebbe essere sconvolta dall’irruzione inaspettata e non voluta della notizia della vicenda (lontana nel tempo e nella memoria), che ha portato alla nascita di quel figlio. Di nuovo al diritto del figlio di sapere si contrappone quello della madre al rispetto della sua vita privata e familiare. Il requisito della «massima riservatezza» è dunque essenziale, perché la procedura disegnata dal progetto di legge assicuri una possibilità di equilibrato, ragionevole, umano contemperamento di tutte le esigenze che legittimamente fanno capo ai protagonisti della vicenda.
Benché cauta e minimale, la disciplina che si pensa di introdurre, rappresenta comunque un mutamento importante del quadro normativo (ma anche di tradizionale conoscenza), nel quale decine di migliaia di madri, fidando sul segreto perpetuo, hanno scelto di partorire anonimamente. Se la legge in via di approvazione avesse effetto retroattivo, l’affidamento di quelle madri nel perdurare della garanzia di segretezza sarebbe vanificato. Gli effetti, se, come può facilmente accadere, la «massima riservatezza» non fosse mantenuta, potrebbero essere gravissimi. Basta pensare a ciò che accadrebbe in una famiglia, che ignora la vicenda del passato della madre, quando giunge la telefonata dell’assistente sociale, o la lettera che le propone un incontro. Non rispettato sarebbe il diritto della madre a mantenere riservato un fatto di evidente carattere personale. La promessa dello Stato di proteggere il segreto verrebbe tradita.
La nuova legge instaura per il futuro un regime equilibrato di confronto tra diritti ed esigenze diverse e confliggenti. Ma per il passato non deve valere.