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 2015  maggio 12 Martedì calendario

Scrivere senza parole. Così gli emoji da qualche tempo abitano nei nostri telefonini e stanno rottamando l’alfabeto. Tra una faccina col sorriso e un paio di manine che applaudono, il dialogo al tempo di Whatsapp

A forza di andare avanti, siamo tornati indietro. Al linguaggio delle caverne. I disegnini. Oggi si chiamano emoji. Hanno sedici anni, vengono dal Giappone, da qualche tempo abitano nei nostri telefonini e stanno rottamando l’alfabeto. Le lingue del mondo. Invece di scrivere una frase lunga, sempre più spesso ce la caviamo con una faccina sorridente appropriata al caso (puoi sorridere in trenta modi diversi nel mondo delle emoji, e lo stesso per arrabbiarti o piangere); oppure puoi metterci il disegno di una qualunque altra cosa (c’è ampia scelta: le emoji sono più di 800). È il dialogo al tempo di Whatsapp. E se non la chiamiamo rivoluzione è solo perché i primi uomini della Terra già facevano così. Dev’essere che la vita è un cerchio: il primo giro delle parole è durato qualche millennio e adesso si ricomincia daccapo.
Se cercate un responsabile, più dell’anonimo ingegnere giapponese che disegnò le emoji nel 1998, puntate su Whatsapp che sta facendo esplodere questa nuova forma comunicazione. In realtà il fenomeno riguarda tutti i social network, in particolare Instagram, ma è solo su Whatsapp che il fenomeno sta diventando trasversale e intergenerazionale: perché sempre più è questa la piazza digitale che tiene assieme tutti, dai nipotini che messaggiano i voti appena presi a scuola, ai nonni che li commentano in diretta, magari con una emoji.
Insomma, partiamo da Whatsapp per capire che sta succedendo nelle nostre vite e dire che prima che su Facebook, e molto prima che all’Anagrafe, ormai i bambini nascono lì. In sala operatoria, qualche istante dopo il parto, neanche il tempo di essere invasi da una gioia profonda, oramai non è più una rarità sentire una frase tipo: “Dai, passami quel telefonino, ché mando la foto ai nonni!”. Non solo ai nonni. Il bello di Whatsapp è che puoi fare dei gruppi di utenti, in questo caso con tutti i membri della famiglia; non serve neanche la mail, basta il numero di telefono. Il bello di Whatsapp è anche che puoi mandare con un solo clic una raffica di scatti: il primo pianto del neonato, il taglio del cordone ombelicale, il viso trasfigurato di stanchezza e felicità della mamma, il selfie giulivo del papà e anche il dottore in posa già che ci siamo. Il digital pupo è servito: anche se non può saperlo, da grande lo imparerà. Quel giorno, in pochi secondi, è nato una seconda volta.
È il bello di Whatsapp: che non è solo una applicazione per mandarsi messaggini, come troppo rapidamente molti l’avevano classificata non capendo bene il motivo per il quale Facebook l’ha comprata per 19 miliardi di dollari. E non è nemmeno solo uno strumento per telefonarsi gratis usando la rete di Internet, come temono le compagnie telefoniche. Whatsapp è, anzi, sta diventando sempre di più il vero social network per famiglie. Ed è questo, in fondo, il motivo della sua crescita vertiginosa: ad agosto gli utenti erano 600 milioni, a gennaio già 700; qualche giorno fa 800 milioni, quasi quattro volte Twitter. Ma la cosa stupefacente è che ogni giorno che passa si aggiungono un milione di persone mentre vengono mandati oltre 30 miliardi di messaggi. Miliardi, sì miliardi. Al giorno, sì al giorno.
Sì certo, ci sono anche i gruppi di giovanissimi, e vanno per la maggiore: qui gli adolescenti si scrivono di tutto. Anzi, spesso nemmeno scrivono: si scattano e mandano foto a manetta (700 milioni al giorno); si inviano brevi video (100 milioni al giorno) ma ancora più spesso condividono messaggi audio (anche questo è il bello di Whatsapp, i messaggi vocali: infatti sono 200 milioni al giorno). Insomma, a volte i ragazzi si comportano come se il telefonino fosse una ricetrasmittente “perché che palle scrivere sempre…”. Che palle scrivere, appunto: per questo, stanno dilagando le emoji.
Ma è nella versione per famiglie che Whatsapp dà il suo meglio. Perché nelle sue chat quotidiane in un certo senso si combatte il divario digitale dei nonni e dei genitori; e soprattutto perché in questo modo si tiene vivo un dialogo fra nuclei familiari altrimenti sempre più divisi e distanti. Il fenomeno è globale. In rete ci sono decine di post che lo raccontano e fioccano liste e consigli sui nomi più spiritosi da dare al proprio gruppo familiare. Mentre su Facebook ogni giorno o quasi nasce una pagina dove gli utenti caricano le schermate delle conversazioni più esilaranti. La cosa è partita per farsi due risate alle spalle delle ingenuità digitali dei meno giovani, soprattutto con le parole che escono fuori a caso quando il correttore automatico interpreta gli errori di battitura sulle tastiere touch (“Ti mando un balcone” (invece di bacione), “E io un terrazzo” ). Ma in realtà gli screenshot sono dei perfetti quadretti di un nuovo lessico familiare.
Come questo, con la mamma dialettica. “Mamma quando il tatuaggio?” “Dani quando lo studio? “Vuol dire che non me lo fai fare?” “Vuol dire che non studi?” “Però me lo fai fare?” “Però studi?” “Cosa mangiamo?” “Cosa cucini?”.
Ma anche questo, dopo una promozione all’esame per la patente, con una mamma definita, affettuosamente, “Hitler”: “Mammaaa! Sono stata promossa” “Brava amore, comincia a bere tanta acqua” “Perché????” “Così ce pisci dentro perché non ho una lira per farti fare benzina”.
Fin qui, tutto normale. Nel senso che siamo ancora nel mondo che conosciamo. L’alfabeto. Le lettere. Qualcosa di familiare. Ma la vera innovazione di linguaggio di Whatsapp è il dilagare delle emoji, introdotte nel sistema operativo della Apple dal 2011 e da Android dal 2013. Che hanno di speciale? Che non sono solo faccine, come le emoticons: ci sono posti, oggetti, paesi, natura, bandiere, simboli. E così giorno dopo giorno le emoji stanno introducendo un alfabeto universale (in Italia quasi un messaggio su due ha delle emoji).
A farne le spese, per ora, soprattutto le famigerate abbreviazioni, come OMG, (ovvero Oh My God!, Oh dio mio! ). Erano popolarissime su Internet fino a qualche anno fa al punto che per esempio nel 2011 LOL, che sta per Laughing Out Loud, cioè farsi una grassa risata, è stata ammessa fra i neologismi dell’autorevole dizionario di Oxford. Ma le abbreviazioni erano un prodotto di nicchia, che non a caso piaceva ai primi utenti della rete e sono già in crisi perché nascevano con vari difetti, su tutti il fatto di essere comprensibili in una lingua soltanto e quindi di non essere davvero universali.
Le emoji invece sono disegnini e si capiscono in tutte le lingue del mondo. Anche se ci sono delle differenze: secondo una recente ricerca, che ne ha analizzate un miliardo in sedici lingue diverse, “gli americani mandano teschi, i brasiliani i gatti e i francesi i cuoricini” (nota: i francesi mandano quattro volte più cuoricini della media seguiti dagli italiani che invece primeggiano per disegnini con mani che fanno vari gesti, dagli applausi in poi. Insomma, noi gesticoliamo anche qui).
E così, soprattutto fra i giovanissimi, ci sono interi scambi di messaggi che ormai avvengono senza digitare una sola lettera dell’alfabeto. Solo raffiche di disegnini, di ardua interpretazione per chi non è abituato, che rimbalzano da una parte all’altra. È una innovazione? Certo, ma è anche un salto indietro di migliaia di anni. Che ci riporta, come sensazione, ai geroglifici egizi, e prima ancora all’alfabeto dei sumeri o ai disegni nelle caverne. È la fine della scrittura come la conosciamo? O è la nascita di una comunicazione universale, un esperanto ma davvero usato da tutti?