la Repubblica, 12 maggio 2015
I paesi del Golfo disertano il summit di Obama. Un duro colpo per il presidente che a Camp David spiegherà l’accordo sul nucleare
Non ci sarà il re saudita, Salman, che all’ultimo momento ha deciso di mandare il principe ereditario Mohammed bin Nayef. Non ci sarà neppure il monarca di Bahrein. Fioccano le cancellazioni, e le sostituzioni non proprio eccellenti, al summit di questo giovedì a Camp David. Eppure Barack Obama ce l’aveva messa tutta, per trasformarlo in un simbolo di riconciliazione con i potentati arabi del Golfo. Il presidente americano ha invitato nella sua residenza di campagna – sede di storici accordi diplomatici – i leader del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Sei paesi in tutto, con un peso massimo come l’Arabia saudita e poi gli Emirati, il Qatar, il Kuwait, Bahrein e Oman. Al centro della giornata di dialogo ci sarà naturalmente il “convitato di pietra”, l’altra potenza regionale che si affaccia sul Golfo, ma che gli arabi considerano come un temibile avversario: l’Iran. Non è un segreto che l’accelerazione del negoziato sul nucleare iraniano, con la spinta decisiva data da Obama, ha coinciso con un pesante deterioramento nel rapporto con l’Arabia saudita e gli altri paesi del Golfo.
Siamo ormai a un mese e mezzo dal traguardo: il 30 giugno è la scadenza entro la quale l’Iran e le sei potenze che negoziano sul nucleare dovrebbero decidere se ci sono le condizioni dell’accordo.
Prima di allora, Obama vuole fare un tentativo in extremis per placare le paure dei paesi arabi che si affacciano sul Golfo. Ma le cancellazioni dell’ultimo minuto, con sostituti di rango inferiore che verranno a Camp David, indicano che la tensione è tuttora ai massimi. Soprattutto fra l’Arabia saudita e gli Stati Uniti, un tempo alleati di ferro, ormai i dissensi prevalgono. Non c’è solo l’Iran, per la verità: le strategie di Washington e Riad cominciarono a divergere platealmente quando Obama rinunciò a bombardare Assad, deludendo i sauditi che volevano un intervento militare in Siria per rovesciare il regime. Anche in quel caso però c’era dietro l’Iran: far fuori Assad significava eliminare uno dei pochi alleati fedeli di Teheran in Medio Oriente.
Sul nucleare, la posizione dell’Arabia saudita assomiglia molto a quella di Israele: zero fiducia sull’affidabilità degli iraniani nel mantenere gli impegni; dura condanna della levata delle sanzioni che farebbe seguito all’accordo. I sauditi sono particolarmente preoccupati da questo secondo aspetto: una volta eliminate – sia pure gradualmente – le sanzioni economiche, l’Iran tornerebbe ad essere un peso massimo nel mercato petrolifero mondiale. E dalle vendite di greggio ricaverebbe mezzi per finanziare gruppi terroristici, o “guerre per procura” come quella nello Yemen.
A dar voce alle preoccupazioni degli alleati arabi del Golfo, ecco questa dichiarazione dell’ambasciatore degli Emirati: «In passato con l’America ci bastavano patti tra galantuomini per intenderci; ora vogliamo garanzie scritte». È un’allusione ad un trattato di aiuti militari e di assistenza in caso di aggressione, che sauditi ed altri vorrebbero da Obama: sul modello della difesa che gli Usa garantiscono ad Israele. O quantomeno qualcosa che assomigli ai trattati che l’America ha firmato con Giappone e Corea del Sud. Più, naturalmente, nuove forniture di armi hi-tech made in Usa.