CorrierEconomia, 11 maggio 2015
«Perché abbiamo deciso di appoggiare il conservatore Cameron alle elezioni britanniche? Per l’economia». Zanny Minton Beddoes, la prima donna a diregere l’Economist, il prestigioso settimanale inglese, parla del suo Premier («Meglio posti di lavoro con salari ridotti che un mercato del lavoro fermo») e del nostro: (A chi si ispira Renzi? Decisamente a Tony Blair»), della rivoluzione del suo giornale digitale («Vedo un bacino di 73 milioni di lettori»), di quello cartaceo («Abbiamo abbandonato il Sir come incipit delle lettere. È troppo antiquato») e dell’Expo («Non tutte lasciano il segno»). E dice anche che fra le sue firme vorrebe Mario Draghi («Ma temo che sia troppo impegnato)
«Perché abbiamo deciso di appoggiare il conservatore Cameron alle elezioni britanniche? Per l’economia». Risultato: i conservatori sono usciti con la maggioranza assoluta dalle urne. E Renzi? «Sta cercando di fare esattamente le riforme che servono a fare ripartire l’Italia». Insomma: è sempre l’economia a decidere.
«È così», sorride Zanny Minton Beddoes, che ha appena passato la boa dei primi cento giorni al timone dell’ Economist al posto di John Micklethwait (passato a Bloomberg News ). Studi a Oxford e Harvard, giovanissima al Fondo monetario internazionale, prima di diventare a 47 anni la prima donna alla guida della pubblicazione più amata (e temuta) dai leader mondiali, è stata responsabile della sezione economico-finanziaria del magazine dove è arrivata nel 1994.
Il suo ufficio nel cuore di St James’s Street a Londra profuma di fiori. Sulla scrivania lilium bianchi contendono lo spazio a carte, all’iPhone e alla bozza della cover del prossimo numero dell’ Economist. La giornata del direttore è iniziata all’alba, per mandare in stampa il giornale. Ma lo stile della Minton (sposata con il collega Sebastian Mallaby, ex Economist poi Washington Post ora al Council on Foreign Relations ) è impeccabile: decolleté alte blu e pull bianco sul quale ricadono i capelli biondi. Non a caso, quando arrivò la nomina, lo Spectator notò come il suo talento sia sempre stato pari al suo «office glamour». Alla parete il ritratto di James Wilson, il produttore di cappelli di Hawick che fondò il giornale nel 1843 per sostenere il libero commercio.
La prima donna al comando, negli oltre 170 anni dell’ Economist in cui il giornale ha appoggiato Reagan e la Thatcher ma anche Wilson e Clinton...
«La prima al comando, ma già negli anni Quaranta e Cinquanta avevamo autorevoli giornaliste in redazione. E sa perché potevamo permettercelo? Perché l’ Economist è anonimo, i giornalisti non firmano gli articoli e dunque nessuno poteva scandalizzarsi di una firma femminile».
Come diceva il direttore Geoffrey Crowther (1938-1956), il giornalista «non è il padrone, ma il servitore» della notizia.
«Nessuna firma e molto confronto editoriale fra di noi. Riunione tutti i lunedì per discutere, spesso anche animatamente. Ho introdotto solo una novità nella tradizione del meeting, anziché nel mio ufficio andiamo nella sala del board, al 14° piano. Eravamo diventati troppi per ritrovarci qui. Ormai l’ editorial staff supera quota 150, di cui 120-130 sono giornalisti. Con il 70% del team editoriale basato a Londra».
Con Micklethwait le copie sono lievitate a una diffusione di quasi 1,6 milioni (su carta 1 milione 350 mila; digital only 232 mila). E anche se pure l’ Economist ha tagliato le copie scontate con un calo nelle vendite, ha compensato con gli abbonamenti sulle piattaforme digitali. Risultato: il numero dei giornalisti aumenta. Che cosa offre il futuro ai media?
«Straordinarie opportunità da cogliere. È un momento di grande trasformazione, ma nel cambiamento rivoluzionario che la tecnologia sta introducendo si nascondono grandi potenzialità. Perché in questa evoluzione globale i protagonisti sono persone sempre più curiose dei fatti del mondo, amanti della tecnologia. E l’evoluzione economica sta generando anche una nuova classe di persone con buona formazione culturale, buoni stipendi e buona padronanza dell’inglese».
A che punto è la rivoluzione?
«Agli inizi. E all’orizzonte vedo un bacino potenziale di circa 73 milioni di nuovi lettori. Ma per raggiungerne una parte dobbiamo essere i migliori. È come nelle elezioni politiche: the winner takes all. Ed è anche un po’ come nel mondo dei consumi, non c’è più spazio per i brand di qualità media, ma solo per il low cost o per i brand di altissima qualità».
La ricetta editoriale?
«Innovare, integrare e misurare. Dobbiamo innanzitutto metterci in gioco con nuove soluzioni tecnologiche, per questo ho voluto come vicedirettore Tom Standage per la parte digital, oltre a Ed Carr per la cura del settimanale (entrambi erano in lizza per il dopo Micklethwait, ora affiancano l’executive editor Daniel Franklin, ndr ). E poiché la tecnologia ci consente di misurare i nostri lettori, di capire come e quanto leggono, ho voluto creare subito un piccolo team di web analitics : tre persone, incaricate di studiare ogni settimana questi dati, con focus specifici a rotazione. Poi, mi rendo conto che tutti siamo chiamati a lavorare su molte piattaforme, mentre una volta c’era solo il giornale di carta: il mio compito sarà anche riuscire a riorganizzare il lavoro in modo che i giornalisti abbiano comunque il tempo per pensare».
Altre sorprese in arrivo dalla torre dell’ Economist?
«Per esempio gli Economist Films. In più c’è il nuovo Economist Espresso, le nostre news quotidiane».
Per la verità, a dispetto del fatto che è un settimanale, l’ Economist si è sempre definito un quotidiano.
«Perché cerchiamo di stare sulle notizie, oltre a fornire la nostra chiave di lettura. Anche se vorrei che le copertine, durante la mia direzione, avessero talvolta il coraggio di andare oltre l’attualità. È quel che chiedo ai redattori: aprire gli occhi dei lettori a qualche cosa di nuovo, che parli di futuro. E non necessariamente è la storia della settimana».
Quali saranno i temi dell’ Economist 2015?
«L’estremismo politico, l’ineguaglianza, la società che cambia e la tecnologia, per esempio».
Innoverà anche nel giornale di carta?
«Ho già iniziato, non c’è più Sir come incipit delle lettere nella pagina della corrispondenza. Perché Sir e non Madam ? E poi è così antiquato. Ma saranno piccoli e progressivi aggiustamenti: la tradizione del giornale è più grande di tutti noi chiamati a dirigerlo».
Direttore ed economista, ha lavorato anche all’Fmi. Che cosa riserva l’economia?
«Partirei da Londra. Il motivo per il quale abbiamo deciso l’endorsement a David Cameron è proprio l’economia. Ha lavorato per la riduzione del deficit, il sistema scolastico è stato ripensato e poi i salari si sono compressi… che è anche quello che gli viene contestato. Ma è quel che sta succedendo anche negli Usa e in Giappone. Meglio posti di lavoro con salari ridotti che un mercato del lavoro fermo. E penso all’Italia con la disoccupazione giovanile oltre il 43%».
A proposito di Italia. L’Expo: un affare o un azzardo?
«Ci sono Expo, come quello inglese del 1851 con il Crystal Palace, finiti nei libri di storia. Altri non lasciano molto».
Matteo Renzi. Un nuovo Blair o un Cameron?
«Sta cercando di fare esattamente le riforme che ci vogliono. A partire dal mercato del lavoro. In un mondo dove la tecnologia è così disruptive solo un mercato flessibile consente di creare occupazione. Lo ha fatto il Regno Unito dove oggi il mercato è incredibilmente flessibile: effetto della crisi 2008 che ha generato la più grande riduzione salariale. Ma ora possiamo lavorare per farli crescere i salari. E intanto la City è ripartita. A chi si ispira Renzi? Decisamente a Tony Blair».
City e Wall Street. Si è regolato troppo?
«La crisi ha insegnato che era indispensabile regolare i mercati, ma il problema è che questa regolamentazione continua. E invece il sistema ha bisogno che a un certo punto si concluda il processo. Se poi penso a Wall Street basta l’esempio della complessità del Dodd-Frank Act. La regolamentazione avrebbe dovuto essere più radicale all’inizio ma meno prolungata nel tempo».
Dinastie in politica. Hillary Clinton sarà presidente?
«Ha un’esperienza formidabile e in termini di politica economica direi che è a sinistra di Bill Clinton e a destra di Barack Obama. Ha molte chance, anche se può darsi che gli elettori vogliamo una faccia nuova, stanchi delle dinastie».
Oltre al Vecchio e al Nuovo Mondo, dove porta il futuro?
«In India, il Paese può fare molto con la guida del premier Modi. E poi c’è il Messico che sta attuando riforme nel settore energetico e ha il vantaggio della vicinanza agli Usa».
La Cina rallenta o si consolida con la crescita al 7%?
«Sta rallentando, ma perché sta cambiando il modello di sviluppo: da quello dirigistico statale a quello più di mercato. E anche se la bolla del settore immobiliare si è già fatta vedere in alcune zone del Paese non temo una crisi come ci fu negli Usa: il governo centrale la impedirà».
L’ Economist ha avuto i migliori cervelli tra i collaboratori, anche Luigi Einaudi. C’è un economista italiano che arruolerebbe? Magari Mario Draghi?
«Magari! Lo accoglierei con grande entusiasmo. Ma temo sia troppo impegnato».