la Repubblica, 8 maggio 2015
Che cos’è la felicità? Una semplice domanda per lo stesso campione umano, a distanza di 80 anni. Uno studio inglese scopre così che l’unica risposta immutata è «sicurezza economica». Così il buon umore cambia con il tempo
Cos’è la felicità?” chiedeva irriverente un annuncio sul Bolton News il 28 aprile 1938. I cittadini di quel grigio centro industriale a nord di Manchester, piagato da una disoccupazione al 17 per cento, non si tirarono indietro. Inviarono alcune centinaia di lettere “incuranti dello stile e della grammatica”, proprio come la locandina indicava.
A distanza di quasi 80 anni, la Bolton University ha pubblicato lo stesso annuncio sullo stesso quotidiano (ma nell’edizione web). E i cittadini di un mondo più aperto e più ricco hanno risposto allo stesso modo: il primo ingrediente della felicità è la sicurezza. «Sicurezza economica, intendiamo. Avere abbastanza denaro per sopravvivere», come spiega Jerome Carson, professore di psicologia dell’università di Bolton, uno degli autori della ricerca. «Dobbiamo pensare che nel 1938 in Gran Bretagna non esisteva alcuna forma di welfare state».
Anche oggi che il welfare state esiste, in realtà, la sicurezza economica non si sposta dalla cima della classifica. Ed è l’unico trait d’union fra il mondo di ieri e quello di oggi, perché tutti gli altri tasselli che compongono il concetto di felicità sono stati terremotati e capovolti da questi intensi 77 anni di storia. La religione, che nel 1938 si piazzava al terzo posto, ora è precipitata al decimo e ultimo, peggio solo della politica. La conoscenza, intesa come “opportunità di imparare nuove cose” era al secondo posto alla vigilia della Guerra, quando l’istruzione gratuita arrivava solo a 14 anni, ma risulta appena a metà nella classifica di oggi, surclassata dalla maggior levità di voci come tempo libero e buon umore, cioè “più sorrisi e risate per me stesso e le persone che mi circondano”. La felicità è concentrata nel weekend, possibilmente in campagna, per il 41 per cento delle persone di oggi, contro il 25 di allora. Ed è sinonimo di una risata in compagnia, perfino dei propri cani e gatti (basilari per una persona su quattro).
«Dalle lettere del 1938 emerge un mondo imperniato sulla vita quotidiana, a casa e all’interno della comunità. Quelli erano gli ingredienti della felicità. Anche oggi molto valore viene riposto in familiari e amici», aggiunge Sandie McHugh, la psicologa dell’università di Bolton che ha condotto lo studio insieme a Carson. “Quando torno a casa dalla miniera, mi sono lavato, vedo i miei figli e mia moglie sono felice” scriveva un uomo che aveva risposto all’annuncio del Bolton News. “Avere abbastanza soldi per le esigenze di tutti i giorni e qualcosa in più per un po’ di piacere”, aggiungeva un altro. Accanto a risposte come “avere una coscienza pulita” ed “essere al servizio di Dio”, nel 1938 non mancava chi si rendeva conto che “per essere felici bisogna aver conosciuto il dolore”.
“La felicità – sintetizza uno degli abitanti dell’epoca – è qualcosa per la quale bisogna lavorare duro. Non si raggiunge facilmente. Vuol dire sentire la vita nelle proprie ossa”. Il crollo della fede come pilastro della soddisfazione personale (non soltanto a Bolton: in Italia negli ultimi vent’anni gli atei sono cresciuti del 3,5 per cento e i credenti sono diminuiti del 10,5 per cento) si rispecchia anche nella quota di persone che crede che la felicità sia frutto non del proprio lavoro, ma della fortuna: oltre il 40 per cento in entrambe le epoche.
Nel “come eravamo” di ottant’anni fa, in una cittadina tutta ciminiere e fumo, piacere e tempo libero erano agli ultimi posti della classifica della gioia. A superarli (in negativo) solo la politica intesa nelle sue due sfaccettature: la possibilità di far sentire la propria voce in ambito pubblico e l’esser guidati da una leadership efficace, sia in ambito locale che nazionale. La distanza fra le parole “politica” e “felicità” era abissale allora, e tale è rimasta oggi, nella Bolton tutta hitech ed elettronica che – paradigma di una realtà comune ai paesi avanzati – non è riuscita a decollare nel suo livello di benessere psicologico rispetto al piccolo mondo post depressione del 1938. Allora, con l’ingresso di Hitler a Vienna e i successi di Franco in Spagna, ci si sosteneva con la religione e soltanto uno su 25, tra i partecipanti al sondaggio, immaginava che gli eventi internazionali avrebbero influito sul proprio benessere emotivo.
«Oggi abitiamo in case più belle, abbiamo un sistema sanitario efficiente e tutti possono accedere a un livello di istruzione universitario», scrivono Carson e McHugh. «Ma questi miglioramenti portano con sé anche delle difficoltà. Le persone rischiano di diventare degli alienati dipendenti dai beni di consumo. La “bella vita” si accompagna a debiti e stress insopportabili per alcuni». E risalendo molto, molto più indietro nel tempo – Aristotele definiva la felicità “il senso e lo scopo della vita, la totale finalità dell’esistenza umana” – essere arrivati all’equazione fra gioia, buon umore e tempo libero non è necessariamente un passo in avanti, rispetto ai concetti di felicità elaborati dai filosofi del passato, che andavano dalla libertà alla realizzazione in campo sociale, fino alla “concordanza fra ciò che pensi, ciò che dici e ciò che fai” secondo Gandhi.
Ma rassegnandosi al fatto che l’idea di felicità intesa come libertà o come realizzazione in campo sociale oggi sia stata sostituita da quella di sicurezza – i cui pilastri sono la rete del welfare state e un’aspettativa di vita elevata – si spiega anche come mai i Paesi del nord Europa occupino cinque fra i primi dieci posti nella classifica mondiale del World Happiness Report pubblicato pochi giorni fa dall’Onu, con l’Italia al 50esimo posto e la Grecia, precipitata al 102esimo su 158 nazioni censite. La Gran Bretagna, con la sua Bolton, si piazza al 21esimo posto, nonostante la decisione del governo di Londra di puntare dal 2011 su un “indice annuale della felicità” elaborato dall’ufficio nazionale di statistica come contraltare al prodotto interno lordo.
Se la sicurezza economica è il pilastro della felicità, il denaro in eccesso ne è il nemico. Secondo il paradosso di Easterlin del 1974 la soddisfazione personale non dipende dal reddito. Anzi, superato il livello di sussistenza, è inversamente proporzionale all’entità del conto in banca. “Una volta che l’affitto è pagato e io posso mangiare cibo sano, sono felice”, risponde un abitante di Bolton al questionario di oggi. “Bastano cose semplici, come uscire e fare una passeggiata. Non hai bisogno di tonnellate di beni materiali per essere felice”, conferma un altro. “Vorrei una piccola casa, non molti oggetti. Buona musica e libri” gli fa eco un antenato di 80 anni fa, insieme a un altro che desiderava soltanto “qualcosa da mettere da parte per i giorni di pioggia”.
E nonostante sia il sondaggio del 1938 – il primo del suo genere nella storia della psicologia – sia quello di oggi lo dimostrino chiaramente (il 76 per cento delle persone nel 1938 ha risposto che non è il denaro a fare la felicità, l’83 oggi), gli autori della ricerca hanno deciso di offrire un premio a un fortunato estratto a sorte tra i partecipanti: 50 sterline in voucher per il più grande centro commerciale della città.