La Stampa, 4 maggio 2015
Londra a cinque giorni dal voto. Il testa a testa tra labouristi e conservatori che deciderà il destino della Scozia
Quando gli inglesi si sveglieranno, il prossimo venerdì mattina, quello che vedranno dopo i risultati delle elezioni generali sarà un quadro politico strano e confuso.
Il Paese che gode della più veloce crescita economica dell’Unione europea e in cui la disoccupazione è meno della metà rispetto alla media della zona euro, sarà politicamente incerto, piuttosto di cattivo umore e forse sull’orlo di una crisi costituzionale.
In altre parole, in base agli ultimi sondaggi, la Gran Bretagna potrebbe avere un risultato elettorale simile a quello che ebbe l’Italia nel febbraio 2013, un risultato che rende difficile per uno qualunque dei partiti tradizionali formare un governo. Tutto fa supporre che non si sarà un vero vincitore, tranne il partito indipendentista scozzese che passerà dall’essere un piccolo partito del nostro Parlamento di Westminster al terzo partito del Paese.
Le due alternative
In parte come conseguenza di questa crescita degli scozzesi, le due principali formule alternative valide, vale a dire una coalizione guidata dal partito conservatore di David Cameron, o una guidato dal partito laburista di Ed Miliband, apriranno entrambe la possibilità di portare il Paese o all’uscita dall’Unione europea o ad una rottura dei 300 anni di Regno Unito.
Come è potuto accadere? Si tratta di una strana storia, in cui un Paese spesso associato a una certa arroganza, o perlomeno sicurezza di sé, e in generale a un ruolo globale che supera di gran lunga il suo peso oggettivo in termini di Pil o popolazione, sta vivendo una sorta di crisi di identità. E mentre questa crisi di identità sta venendo fuori, l’influenza internazionale del Paese diminuisce.
Crisi di identità
La crisi di identità ha origini sia in tempi relativamente recenti che nel lungo periodo. La crisi recente è quella che spiega perché quello che ci si potrebbe aspettare dalle elezioni di giovedì prossimo – una netta vittoria del partito conservatore al governo, che ha guidato la ripresa economica della Gran Bretagna – molto probabilmente non succederà.
Sei mesi fa il primo ministro David Cameron verosimilmente pensava che tanto più si avvicinavano le elezioni, tanto più ampio sarebbe stato il suo vantaggio nei sondaggi. Il suo avversario, Ed Miliband, sembrava debole e poco carismatico, e le politiche dei Labour erano diventate sempre più «anti-business». In questo modo, rafforzando la crescita economica e la creazione di posti di lavoro si sarebbero sicuramente convinti gli elettori a stare incollati a David Cameron e non correre rischi con i Labour.
Potrebbe ancora succedere, ma se così fosse, lo sarà con un margine molto stretto.
Ripresa senza benefici
Il motivo sembra provenire da due parti. In primo luogo, ovviamente, la forte crescita del Pil non è stata accompagnata da un aumento dei redditi e di tenore di vita. Gli inglesi hanno vissuto sette anni di stagnazione o di diminuzione dei salari reali. I disoccupati che ora hanno un lavoro sono elettori naturali dei Labour o forse dell’anti-Eu Ukip di Nigel Farage. I potenziali elettori conservatori non hanno ancora sentito i benefici della ripresa.
Il secondo motivo risale alla crisi finanziaria globale del 2008. Ha colpito duramente tutti i Paesi occidentali, ma in Gran Bretagna ha anche incrinato pesantemente la fiducia nel nostro modello economico, nelle nostre prospettive, e nella capacità di entrambi i partiti tradizionali di poter governare il Paese.
La crisi ha interrotto oltre 15 anni di crescita economica, e ha gettato un dubbio sul modo in cui la nostra economia è stata gestita che non è ancora scomparso.
Quindi né ai conservatori né ai loro partner della coalizione di centro, i liberaldemocratici, viene dato molto credito per la ripresa economica della Gran Bretagna. E i Labour, come governo alternativo, ancora portano la responsabilità per il crollo del 2008, avvenuto mentre erano al potere e per la loro incapacità di regolamentare adeguatamente le banche e la City di Londra.
Colpa e responsabilità
In realtà potrebbe essere salutare che gli elettori britannici accusino i partiti politici tradizionali per la perdita di speranza nel futuro. Un’alternativa più deleteria sarebbe dare la colpa all’Unione europea, e con essa agli immigrati. Quello che gli elettori hanno in effetti iniziato a fare durante il 2013 e il 2014 con la crescita nei sondaggi delll’Ukip e con il suo spettacolare successo alle elezioni del Parlamento europeo di un anno fa.
Eppure questo stato d’animo sembra si stia affievolendo. A meno di grandi sorprese, giovedì prossimo l’Uk Independence Party sembra destinato a essere il grande sconfitto delle elezioni.
Nel maggio 2014 il partito ha vinto il 27,5% dei voti alle europee. Nei sondaggi per le nostre elezioni nazionali non sono andati mai oltre il 15%, ma ora sono scivolati tra il 10% e il 12%. L’Unione europea non è improvvisamente diventata popolare, ma la Ue e i guai dell’euro non stanno giocando poi così un grande ruolo nella testa degli elettori.
Il voto per l’Ukip danneggerà comunque sia i conservatori che i laburisti se arriva al 10-12%, ma con il sistema elettorale britannico del «first past the post»(uninominale maggioritario, ndt) è improbabile che conquisti più di due o tre seggi. Il loro leader, Nigel Farage, al momento pare non riuscirà a vincere neanche il seggio per cui è in gara, nel Sud-Est dell’Inghilterra.
La scalata scozzese
Invece, il grande vincitore delle elezioni sarà il partito nazionale scozzese. La loro ascesa è il prodotto sia di quelle tensioni e ansie a breve termine sul nostro futuro economico, sia di una crisi di identità nel lungo periodo.
Questa crisi di identità ruota tutta attorno al come centralizzata e «unita», la Gran Bretagna voglia essere. Costantemente, negli ultimi 30 anni, i 5,3 milioni di abitanti della Scozia (che è meno del 10% della popolazione totale del Regno Unito) hanno mostrato di essere sempre più irritati dall’essere governati da Westminster. Questo sentimento non è iniziato nel 1980 durante il governo di Margaret Thatcher, ma durante la pesante recessione che ha colpito duramente gli scozzesi nella prima metà di quel decennio, quando lei era al potere.
Da allora, in Scozia, il partito conservatore non ha vinto che una piccola manciata di seggi. Quindi, quando i conservatori sono al potere, gli scozzesi non si sentono rappresentati, quando invece sono al potere i laburisti, come tra il 1997 e il 2010, si sono sentiti più coinvolti, dal momento che i Labour sono sempre stati forti in Scozia. Ma la crisi finanziaria globale sembra aver portato tutto questo alla fine.
Giovedì prossimo, dei 59 parlamentari eletti per la Scozia a Westminster, i nazionalisti scozzesi potrebbero vincerne più di 50, a fronte dei soli 6 nel 2010. I Labour perderanno quasi tutti i seggi. Questo significa che, per quanto possano andare bene nel resto del Paese, non saranno in grado di governare da soli.
Federalismo centralizzato
Quello che la situazione riflette è certamente l’amarezza per la crisi economica. Ma più profondamente riflette la profonda ambivalenza inglese sul quanto federale il suo sistema politico debba essere. Il nome ufficiale del nostro paese, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, indica che ci siamo costruiti a partire da diversi regni (Galles, Scozia e Irlanda). Con un nome e una storia così ci si potrebbe aspettare di essere assimilati a uno Stato federale, come la Svizzera o anche gli Stati Uniti.
Invece, il Regno Unito è sempre stato fortemente centralizzato, ancora di più sotto la signora Thatcher. Alla fine, nel 1998, il partito laburista di Tony Blair ha riconosciuto che questo causava risentimento, e istituito parlamenti decentrati sia in Galles e Scozia. E il ripristino della pace in Irlanda del Nord ha permesso un governo regionale più stabile.
Quello che ci troveremo ad affrontare dal prossimo venerdì, poi, è se ora possiamo essere d’accordo su una struttura propriamente federale, oppure se il Regno Unito si sgretolerà.
L’ascesa del Partito nazionale scozzese è stata guidata dal desiderio di indipendenza, ma anche per una voce più incisiva della Scozia a Westminster. È per questo che sono diventati ancora più forti, nonostante la perdita del loro referendum sull’indipendenza lo scorso settembre. Ora anche quelli che si oppongono all’indipendenza voteranno per loro, al solo scopo di ottenere una voce più forte nella politica nazionale.
Il risultato è altamente imprevedibile, così come lo sono le conseguenze. Negli ultimi giorni, i conservatori sembrano aver stabilito un piccolo vantaggio nei sondaggi, che potrebbe dare loro la prima occasione di provare a formare un governo, anche di minoranza, senza un partner di coalizione. La coalizione più praticabile sembra quella tra Labour, liberaldemocratici e nazionalisti scozzesi, ma i laburisti hanno detto a a gran voce che non faranno un accordo con partiti che vogliono disgregare il Regno Unito.
Così potremmo essere davanti a un lungo periodo di paralisi politica o di instabilità, così come successe in Italia, nel 2013. Non sembra molto british, vero?