il Fatto quotidiano, 1 maggio 2015
I sette peccati capitali dell’Ilva. Da Berlusconi a Renzi l’eterno ricatto convivere col rischio malattia pur di avere uno stipendio
È una storia di regali, omissioni e silenzi quella che lega lo Stato italiano all’Ilva di Taranto. Un racconto che negli ultimi anni, attraverso ben sette decreti ad aziendam, spiega in modo emblematico come gli ultimi governi di tutti gli schieramenti abbiano cercato di salvaguardare a ogni costo la produzione d’acciaio nella fabbrica, a discapito della salute dei cittadini di Taranto. Una storia che comincia ben prima dell’estate 2012 quando la magistratura ionica pose sotto sequestro sei impianti dell’Ilva.
Nel 2010 arriva il primo dono: la Prestigiacomo alza i limiti
Il primo decreto “salva Ilva” arriva nell’estate 2010. Nella città dell’Ilva i dati inquietanti sulle emissioni di benzo(a)pirene hanno messo l’Ilva nell’angolo. Il primo dono arriva dal ministro dell’Ambiente del governo di Silvio Berlusconi, Stefania Prestigiacomo, che decreta per legge l’innalzamento dei limiti per questo inquinante cancerogeno nelle città con un numero di abitanti superiore ai 150 mila abitanti.
La bufera che porta la fabbrica dei Riva alla ribalta nazionale giunge nell’estate 2012 quando la procura guidata da Franco Sebastio chiede e ottiene dal gip Patrizia Todisco il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo della fabbrica, ritenuta responsabile delle emissioni che secondo gli esperti generano “malattia e morte”. Nello stesso giorno l’allora ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, pur rappresentando un dicastero considerato parte lesa per l’inquinamento della fabbrica, annuncia il ricorso al riesame per dissequestrare gli impianti, pur non avendo nessun titolo per farlo. Sempre quel giorno vara il decreto con il quale stanzia 336 milioni di euro destinati sulla carta “per il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio della città di Taranto”.
Qualche mese più tardi lo stesso Clini vara un nuovo provvedimento che consente all’Ilva di produrre indisturbata per i successivi 36 mesi in attesa di adeguare gli impianti inquinanti alle disposizione della nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia). I magistrati tarantini sollevano la questione di legittimità costituzionale del decreto, ma la Consulta dà ragione al governo. Da quel momento l’inquinamento è a norma di legge: si può produrre acciaio a scapito della salute di operai e cittadini di Taranto. Il governo diMario Monti nomina un “garante per l’Ilva”: verrà soppresso pochi mesi dopo la sua istituzione.
Da Monti a Letta: nuovo governo, ma la musica resta la stessa
Il governo Monti viene sostituito da quello di Enrico Letta, ma la musica per i tarantini non cambia: l’emergenza Ilva continua a essere affrontata a colpi di decreti. Il nuovo ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, dopo il commissariamento dell’industria dei Riva nomina Enrico Bondi alla guida della società, lo stesso che qualche mese prima, proprio i Riva, avevano nominato amministratore straordinario. Alla base della decisione, la necessità di “sostituire gli ordinari organi di gestione della società Ilva Spa con una struttura commissariale straordinaria, che perseguirà gli stessi obiettivi, escludendo ipotesi di espropriazione o nazionalizzazione dell’azienda di Taranto”.
Qualche mese più tardi, con il decreto legge sulla Terra dei Fuochi, Bondi ottiene dal governo il potere di aumentare il capitale sociale dell’Ilva Spa, chiedendo al gruppo Riva di partecipare e, in caso di rifiuto, il commissario potrebbe ricorrere a investitori terzi o chiedere all’autorità giudiziaria lo svincolo del tesoretto da oltre 1 miliardo di euro sequestrato ai Riva dalla procura milanese in un’altra inchiesta giudiziaria.
Nell’agosto 2013, il governo Letta, attraverso un emendamento, concede all’Ilva l’autorizzazione a smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento. Un nuovo regalo del governo che consente all’Ilva di risparmiare milioni di euro. Per lo stesso motivo, nel maggio dello stesso anno, era stato arrestato l’allora presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, accusato di aver fatto pressioni sui dirigenti per rilasciare il via libera all’azienda dei Riva.
La questione Taranto passa infine nelle mani del nuovo governo di Matteo Renzi, che per mantenere quella che poi sembra una “tradizione”, vara un nuovo decreto salva Ilva. In pompa magna, il premier e il suo ministro Gianluca Galletti, annunciano che l’Ilva entra in amministrazione controllata: a capo della struttura c’è Pietro Gnudi che nel frattempo aveva sostituito Bondi come commissario straordinario. Il provvedimento di Renzi è aspramente criticato da Giorgio Assennato, direttore dell’Agenzia regionale ambiente (Arpa), a causa dell’allungamento dei tempi di adeguamento all’Aia: l’Ilva può continuare a produrre e quindi a inquinare senza che la procura possa intervenire per salvaguardare il diritto alla salute di operai e abitanti di Taranto. Non solo. Il nuovo decreto prevede garanzie per il prestito ponte concesso dalle banche per il risanamento ambientale: il denaro degli istituti di credito, quindi, viene garantito rispetto al credito dei dipendenti, dei fornitori e persino dell’eventuale risarcimento alle vittime. Già, perché il nuovo provvedimento di Renzi consente ai legali dell’azienda, che è in amministrazione straordinaria, di evitare all’Ilva il pagamento degli eventuali risarcimenti, in caso di condanna nel procedimento penale che intanto ha preso il via nel tribunale di Taranto.
Un sì del ministero e 2 miliardi di euro potremmo doverli pagare noi
E mentre a distanza di anni i tarantini aspettano l’avvio delle bonifiche, i regali potrebbero non essere finiti. Pochi giorni fa gli avvocati dell’Ilva hanno chiesto al ministero l’autorizzazione a patteggiare per uscire definitivamente dal procedimento: gli avvocati dell’Ilva sarebbero disposti a pagare sulla carta una multa da 3 milioni di euro e la confisca di 2 miliardi di euro come profitto del reato. Solo sulla carta, però, visto che in realtà la multa finirebbe nella massa passiva dell’Ilva che intanto è giuridicamente fallita e il denaro per pagare i 2 miliardi di risarcimento l’azienda dovrebbe ricorrere a obbligazioni garantite dallo Stato e ai soldi sequestrati a Milano alla famiglia Riva. Denaro dei cittadini, quindi, che in realtà non verrebbe nemmeno confiscato, ma semplicemente vincolato così come prescrive il piano ambientale varato dal governo. Lo stesso piano di risanamento che, dal 2012 a oggi, la politica ha dilatato: spostando sempre in avanti i termini per il risanamento degli impianti inquinanti, mentre i tarantini continuano ad attendere. L’eventuale patteggiamento, però, porterebbe con sé anche l’ammissione delle responsabilità dell’Ilva: una mossa che darebbe ragione ai giudici di Taranto dapprima tacciati di “talebanismo giudiziario” e poi obbligati dalla legge a non intervenire. Per ora è solo un’ipotesi, perché nel frattempo potrebbe arrivare il tempo per un nuovo decreto e un nuovo regalo.