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 2015  maggio 01 Venerdì calendario

Berlusconi e la rivoluzione del pallone. Dalle innovazioni di Sacchi alle partite in tv, così il calcio si è trasformato in un’azienda che produce spettacolo

Da un certo punto in poi si cominciò a dubitare che il pallone fosse rotondo, e cioè in grado di sabotare ogni pianificazione rotolando in una buca o su una zolla. Per il Milan di Silvio Berlusconi il pallone era quadrato, l’imprevedibilità della storia ricondotta dentro regole euclidee e infatti la formazione di Arrigo Sacchi era cifrata e simmetrica – mai più il sonetto alla «Bacigalupo, Ballarin, Maroso...», o alla «Zoff, Gentile, Cabrini...» – e cioè era il 4-4-2, e da lì in avanti la tattica è stata riassumibile matematicamente nei 3-5-2 e nei 4-3-3. Berlusconi era diventato presidente del Milan nella primavera del 1986, e secondo lui tutto sarebbe stato consequenziale: «Avremo un paio di anni di studio, faremo apprendistato, capiremo che cosa va eliminato e che cosa va migliorato. I risultati sportivi arriveranno». E ancora: «Non vedo perché noi che siamo primi altrove dovremmo finire ultimi nel calcio». Stendeva bilanci preventivi per cui due più due avrebbe fatto scudetto, e mezzo mondo o forse tre quarti rideva delle certezze aziendali applicate al colpo di tacco. Diceva che è impossibile vincere se manca una divisa sociale, se il pullman non è supermoderno, se il centro medico è un’infermeria da elementare di paese, se il campo sportivo non evolve per spazi e strutture in cittadella, se il giornale societario è un bollettino. 
Insomma, un simpatico mattacchione sceso in elicottero su un mondo fermo ai presidenti sciùr cummendatùr che erano come dei papà, che spargevano sale dietro alle porte per scongiurare gli assalti avversari, che andavano al calciomercato coi soldi dentro alle buste e non per fare nero. La dottrina calcistica di Berlusconi era quella di Canale 5, il football non era uno sport «ma uno spettacolo», esordì lamentando la distanza manageriale dal campionato spagnolo che durava quarantaquattro giornate «mentre il nostro comporta trenta partite, quasi le stesse spese per quattordici incassi in meno». Il calcio, diceva, «è un’azienda che produce spettacolo» molto malamente «sfruttata». Ci ragionava su da un po’ e infatti nel 1981 aveva trasmesso sui suoi ancora adolescenti canali il Mundialito per club, una simpatica carnevalata fra squadre che avevano vinto la Coppa Intercontinentale. Accettarono il Peñarol, il Santos, l’Inter e il Feyenoord, oltre al Milan che per l’occasione si fece prestare un genio declinante come Johan Cruijff. Per la prima volta in Italia si stamparono i nomi sulle magliette e Berlusconi, per aggirare il divieto di diretta tv, mandò in onda le partite con una differita di pochi secondi. C’era già tutto: televisione, spettacolo, brand, e la furbizia brianzola del Capo.
Era la prima volta che si vedeva in poltrona una partita amichevole, a parte quelle della Nazionale. In onore del padre, ad acquisto del Milan avvenuto, Berlusconi si inventò il trofeo omonimo, partita d’agosto spesso contro la Juventus, e oggi il business dell’amichevole estiva con diritti televisivi è roba da capogiro, coi tifosi in crisi d’astinenza a sintonizzarsi per una sfida coi campioni di Corea o Thailandia. Un’altra chiesa stava per essere sconsacrata, come la Rai sommamente didattica e colta di Ettore Bernabei, ma indisposta a intrattenere per il puro gusto di intrattenere: e così il calcio, sfogatoio immobile nello slot della domenica pomeriggio, che aveva accettato come sacrilegio giusto gli sponsor sulle divise (e nel 1984 lo sponsor del Milan fu Retequattro, guarda un po’). Il Milan doveva essere come Dallas: sovvertire l’ordine costituito. La dottrina venne esposta da subito, come in una scombiccherata commedia hollywoodiana, «il Milan deve diventare la squadra più prestigiosa del mondo attraverso la vittoria dei più importanti trofei internazionali e in forza di un gioco spettacolare. Voglio un Milan coraggioso, in Italia e all’estero. Il bel gioco deve essere il nostro principale traguardo». Accidenti, è andata proprio così. Anche con qualche sublime cafonata, con qualche oscena caduta di stile per rifiuto della sconfitta (la squadra in svantaggio ritirata dal campo di Marsiglia per un riflettore difettoso), però da Berlusconi in poi il calcio non è stato più lo stesso, e non soltanto per la celebrata rivoluzione tattica e psicologica sacchiana, ma anche perché si era trasformato in marchio da globalizzazione, e gli effetti si vedono oggi. 
Dunque, se ogni ingranaggio gira armonico, l’orologio spacca il secondo. Con in più la voglia di rottamare il passato, anche se porta il nome monumentale di Nils Liedholm e Gianni Rivera. Con in più la sicurezza sfrontata dell’egotismo berlusconiano. Con in più il perenne fuoco d’artificio. Quando tutto questo fu trasportato in politica, sembrava ineluttabile il terzo trionfo della volontà, dopo quello televisivo e quello calcistico. E infatti Berlusconi ha vinto, e ha di nuovo cambiato l’Italia, ma non certo quanto e come voleva: perché forse il pallone no, ma la politica è rotonda.