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 2015  maggio 01 Venerdì calendario

«Non mi ha mai detto ti amo». Chiara Rapaccini racconta la sua relazione con Mario Monicelli: «Abbiamo vissuto una vita da Armata Brancaleone quasi sempre in guerra o dentro imprese folli»

«Non farai mai l’attrice perché hai gli occhi stupidi». Come corteggiamento non è il massimo, ma trattandosi di Mario Monicelli era l’inizio di una grande storia d’amore. 1975, Firenze, sul set di Amici Miei. Sessant’anni il regista, burbero e sbrigativo con attori e comparse; quarant’anni di meno Chiara Rapaccini, jeune fille con la erre moscia e la gonna blu a pieghe. Oggi Chiara ha l’età di Mario quando si incontrarono la prima volta, è un’importante illustratrice per ragazzi, ha scritto un bellissimo libro di ricordi famigliari ( La bambina buona), e spopola sul web con la sua serie quotidiana di Amori sfigati.
Quello con Monicelli è stato un “amore bislacco”, che fa sorridere ed emoziona.
Non cominciò con un complimento. Ci restò male, Chiara?
«Offesa a morte. Poi avrei capito che era la sua prima provocazione. Mario faceva il contrario dell’innamorato. Non mi ha mai detto ti amo, se non alle cinque del mattino, confidando nel mio sonno profondo. Arrivava a punte di cattiveria. Una volta sotto uno splendido cielo stellato chiese agli attori e alla sua troupe di esprimere un desiderio. Ma guai a dirlo, si raccomandò, perché se lo dite non s’avvera. Quando toccò il suo turno, scandì a voce alta: voglio vivere tutta la mia vita insieme a Chiara».
Aveva paura dei sentimenti?
«Detestava il sentimentalismo. Si era creato un personaggio il cui motto era: la vita mi ha reso glaciale. Tutti si divertivano, ma in realtà era il suo baluardo».
Da dove nasceva l’uomo glaciale?
«Anche una questione di educazione: sei figli maschi cresciuti da una madre intelligentissima e severa. Quando litigavano, lei li bastonava uno dietro l’altro. Mario ne era fiero perché in fondo aveva una tempra militaresca, da uomo d’altri tempi. Così ci si doveva prendere cura della donna ma senza troppo romanticismo».
Scene sentimentali ne girò poche.
«Una orribile in Viaggio con Anita, con Giancarlo Giannini e Goldie Hawn. Una spiaggia e il sole al tramonto. Mentre la girava, Mario non faceva altro che imprecare».
Anche verso l’amore mostrava una sorta di disincanto, come nei confronti della vita.
«Tra gli epitaffi che dettava ad amici e parenti ce n’è uno che faceva impazzire mia madre: “Di essere stato vivo non gli importa”. Ma cosa dice Mario? Come quell’altro epitaffio: “Muoiono solo gli stronzi”. Ma è matto? In realtà lui voleva dire che l’unica vera condizione era la morte, il resto puro dettaglio».
Un cinismo troppo esibito per essere reale.
«Sì, una sana presa di distanza che era comune ai suoi amici: Age, Scarpelli, Moravia, Suso Cecchi d’Amico. Valeva per l’amore come per la morte. Ricordo ancora Mario che davanti al feretro di Tognazzi si volta verso Pontecorvo mostrandosi sorpreso: ma come, non eri tu il morto? Allora chi ci sta qui dentro? Restai allibita: Tognazzi era il loro migliore amico».
Era il suo modo di sdrammatizzare.
«Alle “scene madri” diceva di preferire “le scene figlie”. Quando gli fu diagnosticato il tumore alla prostata tornammo a casa e lui prese a mangiare con appetito. “Ho paura”, gli dissi. E lui: “Che sarà mai? Ho 77 anni, di qualcosa dovrò pur morire, no? In fondo sei ancora una bella donna, anche se un po’ massiccia…”. “Ma come massiccia, sono dimagrita tre chili?”, reagivo io piccata. Era il suo colpo di genio. Sapeva di provocare una reazione che mi allontanava dal dolore».
Era molto più vecchio di lei.
«Sì, e io non gli risparmiavo le mie ansie. “Ma se tu muori come faccio?”, gliel’avrò chiesto miliardi di volte. “Quanto piangerai? Un mese, due mesi, metti anche tre mesi. E poi è finita. Quindi non mi rompere i coglioni”».
Non le parlava d’amore ma le lasciava le poesie sotto il cuscino.
«Sì, su un foglio di taccuino a quadretti. Quella di Saba era la nostra poesia. Durano sì certe amorose intese quanto una vita e più; io so un amore che ha durato un mese, e vero amore fu. Anche questo è un “memento mori”: guarda che noi potremmo stare insieme solo un’ora, l’importante è l’intensità della nostra relazione. Mi metteva in guardia da se stesso».
Perché lo faceva?
«Sentiva forte la responsabilità di stare con una donna molto più giovane. Ed è stato un gentiluomo perché mi spingeva a essere indipendente dalla figura del padre. In fondo mi diceva: non ti attaccare troppo perché non potrò mai darti quello che cerchi».
A proposito di padri: si trovò un consuocero coetaneo.
«Il regalo più bello me lo fece ai funerali di mio padre. Un’orazione funebre in piena regola in cui ringraziava i miei genitori per avergli permesso di volermi bene».
Di mese in mese, tra voi è durata trentacinque anni.
«Grazie all’ironia e all’anticonformismo. La prima volta che cucinai per lui, venne da me all’improvviso: scusami cara, ma sentirti spiattellare come una mogliettina mi mette tristezza. Trascorremmo la nostra serata d’amore da Settimio in via del Pellegrino, un depresso Paolo Stoppa nel tavolo accanto».
Quando lo vide felice?
«Alla nascita di Rosa, nostra figlia. Fu una frazione di secondo nella gran confusione, mio fratello scambiato per il padre, Mario accolto come il nonno. Io allattavo la piccola, e mi bastò un suo sguardo. Detestava le “famigliette”, ma seppe mettere in piedi famiglie meravigliose».
In ospedale avete trascorso momenti d’amore molto belli.
«Sì anche nella malattia stavamo insieme senza farla troppo lunga. Specie negli ultimi tempi si finiva spesso al Pronto Soccorso. E a lui piaceva stare in mezzo a quell’umanità. “Come ti chiami?”, chiedeva al vicino di barella. “Cecioni Ruggero”. “Perché ti chiami così?”, insisteva Mario. “Ma che je frega scusi, non vede come so’ messo?”. E ridevamo complici, la mia mano nella sua, tutt’ossa e vene blu».
Che amore è stato il vostro?
«Abbiamo vissuto una vita da Armata Brancaleone, quasi sempre in guerra. Mario rasentava le imprese folli, anche io ero un’incosciente. Ci siamo trovati spesso in difficoltà. Anche in montagna: dovendo scegliere tra sentiero facile, medio e impossibile non avevamo dubbi. E una volta vennero a salvarci».
Sempre situazioni estreme.
«Anche quando girò Le rose del deserto, il suo ultimo film. Mario era già vecchissimo. Una sera tutta la troupe andò dormire nell’oasi vicina, e lui volle restare sul set: il capitano non abbandona mai il campo, sentenziò solenne. Trascorremmo tutta la notte dentro una jeep, lui stretto nel cappotto militare che gli aveva dato la sarta di scena. Era diventato il comandante. E io il suo attendente».
Vi siete lasciati e ripresi molte volte.
«Io me ne andavo con grandi scenate, mentre lui imperturbabile continuava a leggere il giornale. Una volta restai fuori due o tre mesi. E lui si fece listare il braccio a lutto con una fascia nera. Una mia amica me lo riferì e io capii subito: mi stava dicendo che era triste ma era anche un modo per sfottermi».
Il vostro ultimo incontro.
«Non stavamo più insieme, ma qualche volta mi piaceva sdraiarmi accanto a lui sul lettone. Parlavamo di tutto, anche delle mie ansie. “Mario, ma che vita abbiamo fatto io e te? Ma perché non siamo mai stati normali?”. E lui, calmo: “Perché siamo fatti così. Accetta ciò che sei e non desiderare mai di essere altro da te. Solo chi non accetta se stesso è dannato”. Lui ha saputo accettare tutto. Ed è stato autore della sua vita e della sua morte».
Si aspettava che sarebbe finita così?
«No. Ma Mario era Brancaleone e non potevi immaginarlo tremante al braccio di una badante. Brancaleone scoppia su una bomba».