la Stampa, 27 aprile 2015
Quel giorno di nove anni fa in cui Romano Prodi annunciò: «Cambieremo il Porcellum». E dire che era una priorità...
Sono trascorsi nove anni e nove giorni dalla mattina in cui Romano Prodi entrò al Senato per guadagnare la fiducia al suo secondo governo, e giudicò indispensabile dire due paroline sul Porcellum: «Lo cambieremo». Ma non così, per modo dire, la modifica era proprio «indispensabile», una «priorità assoluta», «siamo tutti d’accordo», secondo quanto il premier avrebbe detto nei due anni successivi, fino alle parole del gennaio del 2008: «Tornare al voto col Porcellum sarebbe un disastro assoluto». Il povero Prodi c’entrava poco. Roberto Calderoli – che ora passa per l’avvinazzato architetto di una legge elettorale folle, ma in realtà devastata dagli interventi di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini e del capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi – aveva depositato una proposta di sei righe con cui si sarebbe tornati al Mattarellum. Rimase lì per tutta la legislatura perché il centrosinistra, secondo le spiegazioni di Pierluigi Bersani a un Prodi furente, non riusciva a mettersi d’accordo.
Era un prodigio non esclusivo dell’Unione. Rientrato nel 2008 a Palazzo Chigi, Berlusconi sperava «ardentemente» in Walter Veltroni perché «si deve cercare un dialogo con la sinistra per trovare un accordo sulla legge elettorale». Veltroni non era un avanzo di comunista, era un «socialdemocratico», con lui le riforme erano concordabili eccetera. Si sa che gli innamoramenti del capo del centrodestra sono sempre durati poco: con Massimo D’Alema all’inizio, con Matteo Renzi alla fine. Ma quando arrivò Mario Monti, appoggiato dal novanta per cento del Parlamento, ai partiti restava tutto il tempo per infilare due o tre riformucce, fra cui quella del Porcellum. Per Fini andava «cancellato» perché «è una vergogna»; per Bersani tenerselo un altro giro sarebbe stato un «disastro»; per Nichi Vendola era una questione di «igiene politica»; per D’Alema confermarlo era da «irresponsabili». Negli ultimi nove anni e nove giorni non c’è stato leader politico di alta, media o bassa levatura privo di un giudizio severo nei confronti della Porcata e di un vivido sentimento dell’urgenza riformatrice. E però l’urgenza riformatrice non si è mai concretizzata in una proposta sufficientemente condivisa e che non sollecitasse negli oppositori inquietudini per la tenuta della democrazia.
Passato Prodi, passato Berlusconi, passato Monti, toccò infine a Enrico Letta, insediato a Palazzo Chigi da Giorgio Napolitano che aveva infine accettato la rielezione al Quirinale. Davanti ai mille parlamentari disse: «Non intendo rivivere l’incubo dei mesi durante i quali si è pestata l’acqua nel mortaio e non si è stati capaci di partorire nessuna riforma». Nel frattempo erano arrivati anche i cinque stelle. Una di loro, Carla Ruocco, illustrò la situazione al mondo: «Le Borse calano e lo spread cresce per colpa della riforma elettorale». Letta e Napolitano cercarono di mettere insieme una commissione di trentacinque saggi incaricati di rivedere l’intero assetto istituzionale, legge elettorale compresa. Bene, finito Letta, finita la commissione.
Questa settimana si comincia a votare l’Italicum. Se non passerà, dice Renzi, si va a votare. E ci si andrà con il Consultellum, cioè la legge stabilita dai giudici (a proposito di primato della politica).