Il Messaggero, 27 aprile 2015
Keith Jarrett, settant’anni da insopportabile, insuperabile, indisponente. Il grande pianista jazz compie gli anni l’8 maggio. Per l’occasione, Arcana pubblica un suo ritratto in immagini di Roberto Masotti. Il volume ricostruisce la personalità e il talento di un musicista che il 18 maggio si esibirà a Napoli, al San Carlo
Insopportabile insuperabile, indisponente Jarrett: ultimo, sublime maestro del jazz, pianista dal tocco sopraffino in perenne sfida con se stesso, alla ricerca dell’assoluto. Impresa impossibile, anche se l’indisponente Keith c’è andato spesso molto vicino, schivando le insidie del proprio sfrenato narcisismo e a costo di pagare il prezzo di un equilibrio emotivo instabile. Precarietà che, spesso, gli ha fatto perdere la bussola nonostante il successo, nonostante le tante conferme, nonostante il passare degli anni. Anche oggi che sta per compiere 70 anni (li fa l’8 maggio), ogni performance del pianista di Allentown vive sul filo della suspense: basta un colpo di tosse, un flash, un telefonino che scatta una foto per provocare il collasso. Come ricordano gli spettatori di Umbria jazz costretti, tre anni fa, a seguirlo in un concerto al buio, o i parigini della Salle Pleyel quando, l’anno scorso, interruppe la sua performance, disturbato dall’impertinente colpo di tosse capace, sono sue parole, «di uccidere la musica». Gli aneddoti su Jarrett sono infiniti, rischiano perfino di oscurare le dimensioni dall’estro supremo. Gli spettatori di Napoli, che lo vedranno il 18 maggio al San Carlo in un concerto solitario (il primo dopo il compleanno), sono avvertiti. Ma è anche vero che, in qualche modo, le mattane hanno contribuito alla sua fama, dando alle sue apparizioni un senso di magica instabilità e, perfino, di sacralità.
BAMBINO PRODIGIO
Jarrett, pianista prodigio che ha debuttato in pubblico a tre anni, non è sempre stato così. Lo ricordiamo timidissimo, disponibilissimo e già impressionante come talento nel 1969, al Festival del jazz di Bologna, nella sua prima prova italiana (lo conoscevano solo pochi appassionati che avevano sentito i dischi dei Jazz Messengers di Art Blakey e il quartetto di Charles Lloyd). Lo ricordiamo in una storica Umbria jazz del 1974, dove praticamente faceva le prove generali di quello che sarebbe stato il disco della fama, il Koln concert. Quell’album, uscito quarant’anni fa (registrato a gennaio e pubblicato nell’autunno del 1975), ha segnato la sua storia e la sua vita, trasformandosi in un successo strabordante (è uno dei dischi di jazz più venduti della storia: quattro milioni di copie), capace di disegnare un format musicale pianistico (quello delle cavalcate solistiche solitarie) che ha avuto tantissimi epigoni: da Herbie Hancock a Chick Corea, a Stefano Bollani, a Einaudi e Allevi.
LO STEINWAY
E dire che quel concerto venne registrato in condizioni così precarie che il Jarrett maturo avrebbe mandato tutti a quel paese. Per la verità, stava per farlo anche allora, perché lo strumento che aveva chiesto, uno Steinway, non c’era e il Bosendorfer del teatro aveva un suono metallico. Eppure, nonostante fosse supernervoso perché non dormiva da due giorni, si sedette al piano e fu storia. Fino ad allora era un pianista che, come exploit, aveva suonato con Miles Davis (che affondò il suo narcisismo mettendolo al piano elettrico). Da quel momento è diventato un riferimento della musica con una popolarità da rockstar. Per il suo tocco inarrivabile. Per la fulminante sintesi stilistica che tiene insieme la storia del piano dal jazz al ragtime, al pop, al boogie woogie, al gospel, al funky, alla tradizione classica europea. Perfino per i suoi grugniti. Un jazzista capace di ottenere gran risultati anche in campo accademico, come dimostrano le incisioni delle Goldberg variations di Bach o dei 24 preludi e fughe di Sciostakovic.
A TUTTO CAMPO
Non sono molti i casi di musicisti in grado di suonare jazz e classica: ci viene in mente Friedrich Gulda, grande interprete beethoveniano che nel jazz, però, non ha mai confermato quella grandezza.
La storia racconta che il Jarrett superlativo è stato soprattutto quello di un trio che è diventato un’accademia. Un organico, con Gary Peacock al contrabbasso e Jack De Johnette alla batteria, che ha superato i confini dell’affiatamento dedicandosi principalmente ai classici usurati da mille interpretazioni, ripuliti e rilucidati come pezzi di argenteria rara. Dopo oltre trent’anni quel trio, un po’ per raggiunti limiti di età (Peacock fa 80 anni il 12 maggio e la sua salute è precaria), un po’ per usura (convivere con quel leader è remunerativo e esasperante) è arrivato vicino al capolinea (gli ultimi concerti li hanno fatti in autunno in America). E Jarrett, così, va avanti per la sua strada da solo, facendo registrare tutte le sue performance. Poi sceglie le migliori da pubblicare per l’etichetta con cui incide da quattro decenni e mezzo, la tedesca Ecm. Così, per il suo compleanno, ecco due dischi, uno classico frutto di registrazioni del 1984 dove suona Samuel Barber e Bela Bartok (esce il 4 maggio), l’altro che pesca dai concerti solitari del 2014 (esce l’11 maggio) Roma compresa: era luglio all’Auditorium e l’irrequiteto Keith dette un’altra dimostrazione del suo precario stato emotivo con uno sproloquio sulle difficoltà del suo lavoro e poi predendosela con uno spettatore colpevole di avere una luce arancione (forse un Ufo?). Ma suonò splendidamente. Come sempre. O quasi sempre.
Keith Jarrett, un ritratto, di Roberto Masotti, Arcana Editore (175 pagine, 35 euro).