la Repubblica, 24 aprile 2015
Breve ritratto di Giovanni Lo Porto, che era andato via da Palermo a 18 anni. Prima era stato in Croazia, poi a Londra, dove aveva conseguito due lauree sulle discipline delle cooperazioni e di diritti e aiuti umanitari. Dopo era arrivato anche in Giappone per la specializzazione in “conflitti e pace”. Qualche anno fa era arrivato l’impegno con le ong, prima in Pakistan, il Paese che aveva nel cuore, e poi ad Haiti. Per poi tornare di nuovo in Pakistan
Giovanni c’era riuscito. Aveva abbandonato il quartiere di periferia per inseguire un sogno, quello di aiutare i più deboli. Voleva sconfiggere la guerra con la pace, la fame con il cibo e voleva stringere le mani di chi aveva bisogno di conforto tra le macerie di città martoriate. Amava le persone e per lui non esistevano distinzioni di razze. Con lo zaino sulle spalle aveva lasciato lo Sperone, una delle zone più malfamate di Palermo e che aveva inghiottito nel malaffare anche uno dei suoi quattro fratelli, finito in carcere per furto. Giovanni Lo Porto era andato via da casa a 18 anni, prima era stato in Croazia e poi a Londra. Qui aveva conseguito due lauree sulle discipline delle cooperazioni e di diritti e aiuti umanitari alla London Metropolitan University e poi era arrivato anche in Giappone per la specializzazione in “conflitti e pace”.
Qualche anno fa era arrivato l’impegno con le ong, prima in Pakistan, il Paese che aveva nel cuore, e poi ad Haiti. Per poi tornare di nuovo in Pakistan. Giovanni, che tutti allo Sperone chiamano Giancarlo, però non aveva dimenticato le sue radici. Tornava spesso a casa e aiutava anche i suoi parenti con quanto guadagnava: il fratello in carcere e la mamma che da anni è separata dal marito e accudisce un figlio disabile. I suoi soldi erano per loro. Dopo qualche giorno però rimetteva in spalla il suo zaino e ripartiva.
Nel 2012 stava operando nel sud del Punjab, nell’ambito di un progetto dell’ong Welt Hunger Hife che prevedeva la costruzione di case per famiglie rimaste senza casa per un violento alluvione, quando è stato rapito da Al Qaeda insieme con un collega tedesco nel distretto di Multan.
La notizia arrivò allo Sperone come un terremoto improvviso. Da quel giorno iniziò la speranza. Una attesa durata tre anni e tre mesi trascorsi dal giorno della prigionia e spezzata ieri mattina dall’uccisione del cooperante. Dalla casa di via Pecori Giraldi, adesso, mamma Giusy grida il suo dolore per la morte di quel figlio e ha un unico desiderio. «Mio figlio amava il suo lavoro. Rivoglio almeno il suo corpo – chiede all’America – e voglio una tomba su cui piangere. Vi scongiuro, riportatemelo indietro». Anche per lei questi tre anni sono stati una prigionia, il dolore ha sequestrato il suo cuore che si è affaticato. «Non sta bene da tempo – dicono gli amici più cari – e questa notizia l’ha stroncata. Lei sperava e credeva che Giovanni sarebbe tornato a casa. Aveva piena fiducia nella Farnesina».
Il quartiere si è stretto attorno ai Lo Porto. Un viavai di amici e parenti senza sosta. La famiglia, seguendo le indicazioni della Farnesina si è chiusa nel silenzio. «C’era qualcosa nell’aria – dice Giuseppe, uno dei fratelli di Giovanni con gli occhi gonfi per il pianto, facendo capolino dalla porta di casa – e ne abbiamo avuto la conferma, purtroppo. Obama ci chiede scusa? E io rispondo con un tante grazie, cosa devo dire?».
La notizia dell’uccisione dell’operatore è arrivata anche ai tanti coordinatori delle ong con i quali aveva lavorato. «Giovanni era eccezionale, una persona preziosa umanamente e profondamente. Era appassionato e competente», lo ricorda Margherita Romanelli, coordinatrice dell’ong Gvc per la quale Giovanni aveva ad Haiti. «Quando è stato rapito – continua Margherita Romanelli – era partito da poco e mi ricordo che era molto contento per il nuovo incarico».
Giovanni aveva un’empatia particolare con gli sfortunati che incontrava sul suo percorso. E per entrare in contatto con loro aveva imparato diverse lingue. Parlava correttamente il serbo-croato, oltre all’inglese, ma anche gli slang pakistani. Ai suoi amici più cari al termine di una giornata tra i disperati diceva con orgoglio: «È’ questo che voglio fare». E si addormentava sereno.