Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 23 Giovedì calendario

Il diario di Django Sissoukuo, migrante partito dal Mali e arrivato in Italia: «La mia odissea lunga tre anni. Oggi guadagno 5 euro al giorno e per la prima volta sono felice». Quando ha deciso di lasciare la sua casa non aveva niente. Ora vive in Sicilia e tutto quello che possiede è una bicicletta. «Ma se penso a quanto ho sofferto non ho dubbi: voglio restare qui»

Diario di viaggio di sola andata dal Mali all’accampamento di Mineo, distanza percorsa 7800 chilometri, tempo impiegato tre anni, due mesi e quattro giorni. Quando è partito Django non aveva niente, oggi tutto quello che possiede è una bicicletta.
1 GENNAIO 2012
«Questa mattina mi sono sdraiato sul cassone di un camion con i miei due amici Manade e Fasi. Sul camion siamo più di trenta. Io e i miei amici abbiamo un sogno: andare in Europa e lasciare la miseria e la violenza del nostro quartiere di Badalabougou, è un luogo infelice alla periferia di Bamako, la capitale del Mali. Ho perso mio padre Madi nel 2002 e mia madre Gari nel 2003, sono orfano dei miei due genitori da quando avevo 14 anni. Non ho fratelli e non ho sorelle. Sono solo al mondo. Lavoro in un’officina come aiuto meccanico ma non ho sempre soldi per mangiare. Dove voglio andare – Italia, Germania, Inghilterra – non lo so ancora. So che voglio un’esistenza lontano da qua. Io, Django Sissoukuo, a 23 anni voglio cominciare a vivere».
25 FEBBRAIO 2012
«Da un mese sono in Algeria, in una città che si chiama Ghardaia. La frontiera l’abbiamo attraversata di nascosto, una notte. Ci abbiamo messo tredici giorni per arrivare fin qui. Ma sto male. Gli algerini mi trattano come un cane per la mia pelle nera. Ho trovato lavoro come manovale in un cantiere, siamo in tanti a costruire una grande casa. Riesco a mettere da parte qualche dinaro ma mangio solo una volta al giorno. I soldi mi servono per continuare il viaggio, devo pagare per l’Europa. Ma è dura, molto dura la vita per me qui in Algeria».
2 APRILE 2012
«Sono in carcere da due giorni. Alcuni uomini algerini mi hanno aggredito per strada e ferito alla schiena con dei bastoni. Mi hanno picchiato solo perché sono nero, gli algerini sono molto razzisti. Due volte al giorno in carcere ci portano pane e patate, di mattina e di sera, però la polizia del carcere ci tratta bene e non ci fa mai del male. Siamo almeno in 150 i neri rinchiusi qui dentro, in ogni cella siamo sei, sette e anche otto».
14 SETTEMBRE 2012
«La mia vita in Algeria è uno schifo. Dopo il carcere, ventuno giorni rinchiuso, ho ripreso a lavorare in cantiere. Ma non mi piace niente, voglio andarmene. I miei amici Manade e Fasi non ce la fanno più. Ieri passavano da una strada e dei bambini hanno cominciato a scagliare pietre contro di loro».
4 FEBBRAIO 2013
«Oggi mi hanno detto che ci vogliono molti dinari per l’Europa. Ho chiesto quanti, ma non mi hanno saputo dire niente. Mi hanno detto però che c’è un camion che ci può portare in Libia e poi davanti al mare dell’Europa».
15 OTTOBRE 2013
«Sono rimasto un’altra volta solo. Manade e Fasi sono tornati indietro. Sono tornati a casa, a Bamako».
26 MARZO 2014
«Per la prima volta ho pregato in piedi, non c’era spazio per inginocchiarmi questa mattina dentro il camion. Eravamo più di 30, avevamo poca acqua e quasi niente cibo. Dopo quattro giorni – un incubo, ho sofferto tanto – oltrepassando il deserto sono arrivato finalmente in Libia. Ho visto tanti cadaveri lungo la pista del deserto. Tutti neri. Credo che siano morti di sete o di fame, li hanno abbandonati nella sabbia. Erano tutti come me: neri».
27 MARZO 2014
«La città dove mi nascondo in una tenda che è diventata la mia casa è quella di Ghadames. Mi hanno detto che mi faranno lavorare domani o fra qualche giorno. Questi uomini che mi portano di qua e di là come una cosa vogliono molti soldi per farmi vedere il mare.. mi hanno detto proprio così: “Se vuoi vedere il mare tanto denaro”. Sono trafficanti ma in mezzo a loro ho visto poliziotti o militari. Sono sempre insieme».
8 MAGGIO 2014
«Sono fratelli musulmani anche loro, i libici, come anche gli algerini. Ma a noi con la pelle scura ci trattano come bestie. Ho paura di stare qui. In questa città libica anche bambini di dieci, undici, dodici anni hanno fucili e sparano. Io non credevo di trovare queste sventure, quando sono partito dal mio quartiere di Bamako non avrei mai immaginato di vedere altra violenza, ancora più violenza di quella dalla quale sono fuggito. Lavoro anche qui come manovale in un cantiere edile, porto sacchi di cemento da cinquanta chili sulle spalle per tutto il giorno. Spero di farcela, alcune volte penso che Manade e Fasi abbiano fatto bene a ritornare in Mali. Ma lo penso solo per poco tempo: io voglio vedere il mare e l’Europa».
9 GIUGNO 2014
«Mi hanno detto che devo tenermi pronto, che da un momento all’altro mi portano a Tripoli».
4 SETTEMBRE 2014
«Da due mesi ho nuovi amici, sono tutti del Mali come me. Stiamo tutti a Tripoli. È difficile la vita qui, non riesco a mettere soldi da parte, quel poco che guadagno me lo prendono certe persone, le stesse persone che alla mattina cercano i ragazzi più forti per farli lavorare nel cantiere. Della Libia conosco solo i cantieri e la tenda del campo dove dormo».
4 DICEMBRE 2014
«Per la prima volta ho sentito la parola Italia. Uno dei neri che sta al campo mi ha assicurato che possiamo andare dall’altra parte del mare: in Italia. Mi ha anche chiesto: quanti dinari hai? Non mi piacciono quelli che parlano solo di soldi».
2 GENNAIO 2015
«Susak è un ragazzo del Mali e mi ha giurato che presto partiremo per l’Italia».
7 GENNAIO 2015
«Non so dove mi trovo, è un villaggio a sei o sette ore da Tripoli. Un altro camion ci ha portati in questo posto dove per la prima volta ho visto il mare. Mi fa paura, è grande».
13 GENNAIO 2015
«Sto salendo sul battello, siamo in 106».
18 GENNAIO 2015
«Sono vivo, sono ancora vivo. Ho avuto terrore del mare e ho visto morire gli altri che stavano sul secondo barcone. Quattro giorni fa siamo partiti in più di duecento, 106 sul nostro battello e cento su quell’altro. A un certo punto si sono rotti i motori di tutte e due le barche. La seconda barca è scomparsa fra le onde, c’erano uomini e donne, ma anche molti bambini. Li abbiamo visti affogare. Noi ci siamo salvati perché una nave si è avvicinata e gente che aveva addosso una divisa ci ha trascinato fino a un’isola che si chiama Lampedusa. Mi hanno detto che ero già in Italia».
20 GENNAIO 2015
«Mi hanno fatto tante domande su chi guidava la barca. Io gli ho risposto subito, ho detto la verità: era uno del Camerun. Da due notti dormo in un letto dentro un campo a Lampedusa. Mi hanno dato scarpe nuove, un paio di pantaloni puliti, una maglia, un giubbotto nero molto bello. E da mangiare, tanto da mangiare. Questa è l’Italia. Io sapevo dell’Italia solo del Milan e dell’Inter, del calcio che vedevo ogni tanto alla tivù. Io non fumo, ma a molti danno anche le sigarette. Questa è l’Italia. Fino a pochi giorni fa pensavo di morire e adesso invece forse sono felice».
24 GENNAIO 2015
«Dopo tanto tempo ho giocato a pallone. Il paese dove sono si chiama Siculiana, siamo più di centocinquanta e dormiamo tutti in un bel posto che è pulito e tutti sono gentili».
28 GENNAIO 2015
«Alle tre del pomeriggio è arrivato un autobus e un uomo ci ha detto che dovevano salirci sopra. C’erano tanti poliziotti e ho cambiato casa un’altra volta. Adesso abito in un paese dove si vede sempre il mare. È Pozzallo, è un’isola dell’Italia anche questa. Come Lampedusa».
8 MARZO 2015
«Qui mi trovo molto bene perché qui non sono razzisti. Mangio tanto e mangio bene. Sono contento, divento triste soltanto quando penso a mio padre e a mia madre che non ci sono più. Dormo in un posto che ha un numero, il 1062. Ci sono altri ragazzi come me. Ho un nuovo amico, Dankre, anche lui è del Mali. Ci vediamo ogni sera, passeggiamo in questo campo di Mineo dove tutti mi rispettano. Ci vivo da quattro giorni e mi sembra molto lontana la mia città, molto lontane anche la Libia e l’Algeria».
19 MARZO 2015
«Ho trovato un lavoro ma non ogni giorno. C’è Sebastiano che mi fa raccogliere arance. Guadagno 5 euro almeno due o tre volte la settimana. Cinque euro, comincio a raccoglierle alle 8 del mattino e finisco alle 13. Poi vengo alla mensa. Sebastiano mi regala le arance per mangiarle anche al campo».
25 MARZO 2015
«Mi sono comprato una bicicletta, è costata 10 euro. Così è più facile andare da Sebastiano e anche più distante, verso Palagonia dove altri mi fanno raccogliere arance».
2 APRILE 2015
«Non voglio più cambiare casa. L’Italia mi piace, mi aiutano tutti. Devo trovare un lavoro nuovo e aspettare la carta per diventare libero davvero. Mi piacerebbe trovare una ragazza da sposare, anche se è italiana. Ma prima devo trovare il lavoro per pagarmi la casa».
11 APRILE 2015
«Sono arrivati altri neri qui a Mineo. Staranno bene».
20 APRILE 2015
«Ho sentito che sono morti tanti nel mare che mi fa paura».
22 APRILE 2015
«Mi piacerebbe non lasciare mai l’Italia. Una volta sono andato a Catania, vorrei viverci lì a Catania. Ma il mio amico Dankre mi ha detto che si può andare un giorno anche a Milano. Però a me Catania piace tanto».