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 2015  aprile 23 Giovedì calendario

In Yemen le navi americane non fermano i ribelli. Ripresi i raid aerei sauditi contro gli houthi. Arriva la portaerei Roosevelt

«Decisive Storm», l’operazione militare lanciata quasi un mese fa da una coalizione guidata dai sauditi in Yemen per sottrarre il Paese al controllo dei ribelli houthi appoggiati dal regime sciita di Teheran e per riportare al potere Abdu Rabbu Mansour Hadi, il presidente spodestato che è fuggito a Riad, è stata ribattezzata «Renewal of Hope» (dalla tempesta decisiva a un più prudente rinnovo della speranza) quando l’altra sera l’Arabia ha annunciato a sorpresa la fine dei bombardamenti sul poverissimo Paese ai suoi confini meridionali.
La rinuncia a colpire dal cielo, giustificata con l’asserito raggiungimento degli obiettivi militari prefissati, è stata accolta con sollievo dagli Stati Uniti che, pure, hanno appoggiato l’offensiva (politicamente e logisticamente, non con un contributo militare diretto). Ma ieri mattina, proprio mentre la Casa Bianca pubblicava una nota nella quale celebrava la svolta e auspicava che la fine dei bombardamenti potesse riportare al tavolo della trattativa la fazione houthi, l’Arabia Saudita ha deciso di lanciare nuovi attacchi aerei a Taiz, città nel sud dello Yemen che probabilmente stava per cadere nelle mani dei ribelli. Battaglia di carri armati – da un lato i tank degli insorti, dall’altro quelli delle truppe fedeli al leader in esilio – anche ad Aden, all’imbocco del Mar Rosso.
La situazione rimane, insomma, confusa, probabilmente perché la resistenza degli houthi – ben armati anche ora che il blocco navale davanti alle coste ha interrotto il flusso dei rifornimenti iraniani – è superiore a quella messa in conto dall’alleanza sunnita che non vuole lasciare lo Yemen all’influenza sciita dell’Iran. Una coalizione vasta che comprende otto Paesi: dall’Egitto al Pakistan passando per gli Stati-chiave del Golfo.
Gli americani, per nulla convinti dell’efficacia dell’iniziativa militare decisa da Riad, hanno comunque deciso di appoggiarla politicamente perché avevano bisogno di recuperare la fiducia della monarchia saudita e dei leader degli altri Stati sunniti, scossa dal negoziato Usa-Iran sul nucleare: secondo gli alleati arabi di Washington un eventuale accordo rafforzerebbe il ruolo dell’Iran sciita in tutta l’area mediorientale.
Nella situazione confusa rimane l’importanza del blocco navale (ora rafforzato dalle portaerei e gli incrociatori lanciamissili americani) per interrompere i rifornimenti ai ribelli. Blocco autorizzato dall’Onu, dove il Consiglio di Sicurezza ha votato compatto: 15 sì e una sola astensione (la Russia). Ma il rischio che il Paese sprofondi in una guerra senza fine e che se ne avvantaggi anche Al Qaeda è sempre presente. Per questo gli Stati Uniti premono per la ripresa dei negoziati.
Il conflitto ha fatto sin qui circa 950 morti. Se veramente cessassero i bombardamenti che con le loro vittime civili esasperano le tensioni, si potrebbero riaprire spazi negoziali. L’Iran manda segnali di disponibilità, difficile dire quanto credibili. Dopo il curioso auspicio di una maggior collaborazione con gli Usa espresso dal generale che comanda la flottiglia iraniana davanti allo Yemen, ieri ha parlato dall’Indonesia il presidente Rouhani. Il giorno prima aveva accusato l’Arabia Saudita di aver perso la testa perché «i suoi sogni sono andati in fumo in Siria, Iraq e Libano». Ieri è stato più conciliante: «La storia dimostra che questo tipo di crisi non si risolve con le armi».