il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2015
Zeman, il boemo getta la spugna e si dimette. Per la prima volta, al Cagliari, dopo decenni di vento in faccia, accuse scagliate e accolte con il volto sghembo e ironico del libero profeta abituato ai processi, è sembrato fuori posto
Dietro la collina non c’è più nessuno e così il generale Zeman torna alla sua preferita, quella del quartiere Fleming, a Roma, lasciando tra se e la Sardegna la giusta distanza. La separazione di una vocale. Il Tirreno, non essendoci più alcun terreno comune per costruire calcio, sogni e filosofie fuori tempo massimo. Dimissioni irrevocabili dal Cagliari, nel Paese in cui dimettersi equivale a un’eresia, perché il suo dissestato progetto sportivo non conoscesse anche l’onta, ben più insopportabile, della complicità con una tifoseria padrona di una squadra a sua volta vittima delle proprie paure, dei propri limiti e delle condizioni ambientali che da sempre (a Cagliari esattamente come a Varese, Bergamo, Roma, Avellino o Ascoli) orientano il brutto e il cattivo tempo.
Ora sull’isola c’è tempesta. E nella tempesta, smarriti, i calciatori avrebbero deciso per l’ammutinamento. “Non mi seguivano più” ha detto Zeman, osservando i frantumati cristalli di Boemia che in estate, ancora luminosi, gli avevano consigliato di accettare l’offerta del giovane neopresidente Tommaso Giulini, il ritorno in panchina, l’ennesima scommessa di un tecnico che più in là degli schemi e del quattrotretre, aveva segnato come pochi l’immaginario dell’ultimo ventennio. Ora Zeman saluta per la seconda e ultima volta, il Cagliari si affida al quarto tecnico della stagione, David Suazo, già sotto contratto e dopo molti anni si avvia a precipitare in serie B. Si vince e si perde, ma c’è qualcosa di più importante. L’identità. Zeman non ha voluto derogare ai suoi principi e ha salutato un quadro incendiato su cui Giulini (confondendo l’entità numerica dell’ignobile assalto fisico e dialettico dei tifosi in ritiro alla vigilia della gara con il Napoli con l’essenza) ha voluto gettare acqua: “Non erano più di venti persone, non più di mille come a Bergamo” rivendicando l’impegno (oggettivo e quanto pare allo stato ancora inutile) per un calcio liberato dai teppisti che si travestono da ultras o viceversa. Andare d’accordo con Zeman non è semplice. Servono fiducia, impegno, attenzione e pazienza.
Una fatica esistenziale non aliena ai silenzi che in questi anni chi ha affrontato con fideismo (da Schillaci fino a Signori e Insigne) ha visto ripagata. A Cagliari, evidentemente, il dubbio sulle reali capacità di insegnamento di Zeman era più forte del rapporto tra allievi e maestro. Non lo capivano, lo consideravano ciarpame del passato e la fine era parsa nota fin da domenica pomeriggio, quando il capitano, Daniele Conti, a Cagliari dal ’99 aveva preso freddamente le distanze da Zdengo con un laconico e assai poco convinto: “Facciamo quello che ci dice l’allenatore”. Un bollettino bulgaro che unito alla minimizzazione sul minaccioso diktat degli ultras ha definitivamente chiuso l’esperienza di Zeman. Per sempre? Il dubbio è lecito. Per la prima volta, dopo decenni di vento in faccia, accuse scagliate e accolte con il volto sghembo e ironico del libero profeta abituato ai processi, Zeman è sembrato fuori posto. A disagio. Fuori contesto. Qualche lampo di pura bellezza (quattro reti all’Inter in trasferta) e molte pause. L’ultima potrebbe preludere all’addio. È un peccato per tutti quelli che in lui hanno intravisto una luce diversa e per lo stesso Zeman che sognava di morire in campo: “A 90 anni, in tuta, all’aria aperta” come un grande attore al centro del suo teatro. La sigaretta nell’angolo. Il fischietto in bocca. L’andatura ciondolante dei poeti che verso dopo verso, a cambiare direzione all’esistente, hanno provato davvero.