Corriere della Sera, 22 aprile 2015
Elmi Mouhamud Muhidin, lo scafista della tragedia del 3 ottobre 2013, condannato a trent’anni di galera per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sequestro di persona, tratta di esseri umani e violenza sessuale. La pena più alta inflitta finora a un imputato coinvolto nel traffico di persone
Nel carcere di Trapani dov’è rinchiuso, starà forse meditando sulla nuova strage in mare, dopo quella in cui è rimasto in qualche modo coinvolto. Era arrivato in Italia nell’autunno del 2013, in uno dei tanti sbarchi andati a buon fine; non immaginava che nel centro di prima accoglienza di Lampedusa i sopravvissuti alla tragedia del 3 ottobre, quella che provocò 366 vittime, l’avrebbero riconosciuto e indicato come uno degli aguzzini di quell’avventura di morte. Le autorità italiane lo salvarono dal linciaggio, avviando però un procedimento a suo carico che s’è concluso in primo grado due mesi fa, con una condanna a trent’anni di galera per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sequestro di persona, tratta di esseri umani e violenza sessuale.
Il verdetto contro Elmi Mouhamud Muhidin rappresenta un record: la pena più alta inflitta finora a un imputato coinvolto nel traffico di persone. E la sua storia è collegata anche all’indagine palermitana che l’altro giorno ha sgominato la cellula di una delle bande che organizzano il flusso criminale dalla Libia all’Italia. Anche il viaggio di cui Muhidin è stato protagonista, infatti, aveva come terminale affaristico l’etiope Ermias Ghermay, quello che di fronte alla strage di Lampedusa reagì commentando: «Ormai è capitato, pace alle anime loro... Era destino» come risulta dalle intercettazioni.
Il processo a Muhidin, invece – celebrato davanti alla Corte d’assise di Agrigento con l’accusa rappresentata dal pubblico ministero di Palermo Calogero Ferrara – è fatto di testimonianze. Quelle dei superstiti che l’hanno riconosciuto e che davanti ai giudici l’hanno indicato come uno dei «torturatori». Facendo scoprire un altro incredibile dettaglio: il pagamento doppio della prima tratta del viaggio, dai Paesi d’origine fino alla Libia. Perché durante la traversata del deserto, tra il Sudan e il Ciad, una banda di predoni rapinò i profughi di ogni avere; la traversata si interruppe e per ripartire i profughi dovettero pagare di nuovo.
L’hanno raccontato i testimoni al processo contro Muhidin. Come Desta Tiame, che ha rivissuto il viaggio dal Sudan e l’assalto nel deserto da parte di uomini armati di pistole e kalashnikov, arrivati a bordo di jeep e pickup. Dopo la rapina li segregarono in una casa controllata da alcuni somali, tra cui Muhidin. Il testimone l’ha indicato ai giudici: «Lui picchiava, “mandate soldi”, e quando paghiamo noi usciamo» ha raccontato, aggiungendo che per uscire dalla casa e ripartire verso la Libia dovette pagare 3.300 dollari facendo vendere alla madre i suoi gioielli: soldi versati dalla donna in Eritrea e poi pagati ai trafficanti in un altro Paese (in quel caso in Israele) da un corrispondente del primo «cassiere»; sistema ben collaudato, che garantisce trasferimenti di denaro sicuri e senza tracce.
Un altro migrante, Natnael Hale, ha ricordato che Muhidin «mi ha picchiato» finché qualcuno non ha pagato per la prosecuzione del viaggio e così altri che l’hanno pure indicato tra coloro che portavano fuori dagli stanzoni le donne che dovevano essere violentate dai carcerieri. I pestaggi con manganelli e tubi di plastica, per ordinare nuove telefonate ai parenti con la richiesta di spedire i soldi al più presto, si alternavano con l’unico pasto giornaliero, un piatto di riso.
Lui, Muhidin, ha provato a sostenere un’altra versione, il suo ruolo di vittima – come gli altri – anziché di carnefice; ha detto che provò a scappare da una finestra, e che si salvò da rappresaglie solo grazie ai 4.000 dollari che aveva con sé e altri 1.000 mandati da un parente in America. Quando il giudice gli ha chiesto come mai i testimoni l’avrebbero voluto linciare o accusare di falsità, non ha dato spiegazioni. Così è arrivata la dura condanna, che il giovanissimo detenuto sta scontando senza dare alcun problema al personale del carcere. Anche adesso che dalla tv ha saputo di un’altra strage, e dello smantellamento di un altro pezzo della rete di cui – secondo i giudici – faceva parte.