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 2015  aprile 22 Mercoledì calendario

Cronaca di una tragedia annunciata. Sul barcone della morte «il comandante beveva vino e fumava hashish» e quando ha urtato il portacontainer i migranti si sono spostati tutti indietro. Così il peschereccio si è capovolto, «cinque minuti, non di più, ed è andato a fondo»

«Il comandante, nella notte, continuava a bere». «Ma come: beveva ai comandi?» «Beveva. Vino. E fumava hashish». «Fumava hashish?» «Hashish, sì». È così inattesa e sconvolgente, la rivelazione di Nasir, che sulle prime viene il dubbio: non l’avranno tradotto male? Sabbir torna a chiederglielo in bengalese. Risponde: «Beveva. Beveva e fumava hashish». Un ragazzo glielo chiede in arabo. Risponde: «Beveva. Beveva e fumava hashish».
E mano a mano che Nasir parla e viene faticosamente tradotto un po’ in inglese, un po’ in bengalese e un po’ in arabo, emerge una ricostruzione del naufragio di sabato notte, costato la vita a centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini, che dovrà esser approfondita dalla magistratura. Ed emergono responsabilità degli scafisti, bestie assassine, ancora più gravi di quanto si fosse immaginato.
Sono le nove di mattina. La mensa del centro di accoglienza per i minori della «Madonnina» sulla salita di Mascalucia, nella periferia catanese che comincia ad arrampicarsi su per l’Etna bello e maestoso, è inondata dal sole d’aprile. Qualche ragazzino gioca a calciobalilla, qualche altro palleggia in cortile. Altri ancora si affollano intorno alla tivù che trasmette le immagini dell’arrivo dei naufraghi, accolti al porto di Catania fino alle due di notte da una piccola folla composta dal prefetto Maria Guia Federico e dai suoi uomini, dal sindaco Enzo Bianco, dalla Protezione civile, dall’Oim, da Carlotta Sami dell’agenzia per i profughi...
Abdirizzak e Omar, sedici o diciassette anni, tutti e due orfani del padre e partiti per tentare la sorte e dare una mano alla famiglia, riconoscono se stessi mentre scendono dalla nave «Gregoretti» della Guardia costiera. Si segnano a dito l’un l’altro nello schermo. Arrivati alla «Madonnina» verso le tre di mattina, hanno dormito poche ore ma tale è il sollievo per essere sopravvissuti alla catastrofe che sembrano non avvertire la fatica. Anzi, pare non vedano l’ora di raccontare, con la complicata traduzione dal somalo in arabo e dall’arabo in italiano la loro avventura. «Siamo partiti da Gebilay e da Borama, nel Nord-Ovest della Somalia, l’anno passato. Eravamo trentacinque. Abbiamo attraversato l’Etiopia, poi il Sudan e la Libia fino a raggiungere Tripoli dove sono stato arrestato e tenuto in galera per mesi», ricorda Omar, grattandosi la testa riccioluta. C’era sua sorella Sarah, con loro: «Ma l’ho persa. È partita con un’altra nave, non so che fine ha fatto...». Un viaggio faticosissimo. Settimane di scossoni sulle piste carovaniere nel Sahara. La fame. La sete. Il sole a picco. Le notti gelide. La sabbia nelle orecchie e nel naso.
Spiega Abdirizzak, magro come un chiodo e occhi a palla, di avere speso duemila dollari per arrivare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. «Ho un cugino in Norvegia. Il mio sogno è di andare là». Raccontano che il peschereccio era stracarico. Quanti passeggeri? «Mah...». Cioè? Fanno un gesto con la mano come a dire «euh, tantissimi, vai a saperlo...». Donne. Bambini. La vecchia imbarcazione, ricordano, era su tre livelli: «Quelli che avevano meno soldi li hanno ammucchiati sotto, in basso, e li hanno chiusi dentro. Noi siamo finiti nel livello di mezzo. Sopra c’erano quelli che avevano pagato di più».
Sono partiti alle sei, dicono. A un certo momento, nel buio, hanno sentito un botto e il mondo intero si è capovolto: «Urlavano tutti. Spingevano. Gomitate. Pugni. Paura. Da sotto, quelli chiusi dentro, gridavano “Help! Help!”. Non so come, siamo riusciti a nuotare fuori appena in tempo. Mentre il peschereccio andava giù».
Apriamo l’iPad su Google Maps. Stringiamo sulla Libia. Cercano di riconoscere, sulla costa di Tripoli, il porto da cui sono salpati. Avanti, indietro… Puntano il dito su Gergarish. A ovest del centro, dov’era il golf club. «Forse qui», dice Abdirizzak. Omar non è convinto. Anche Nasir non riesce a trovare, sulla mappa, il punto esatto. «Credo anch’io Gergarish, sì. Anche se...».
Francesca Indelicato, Barbara Parisi e gli altri collaboratori della «Madonnina», mostrando orgogliosi le camere pulite e le sale comuni e il campetto di beach volley e le aule dove insegnano ai ragazzi i primi rudimenti di italiano («Ce la mettiamo tutta, anche se non abbiamo ancora visto un euro»), proteggono la quiete di un altro ragazzino del Bangladesh sbarcato nella notte nel porto di Catania: «È arrivato stremato. Gli abbiamo portato qualcosa da mangiare a letto. Dorme».
Anche i sopravvissuti adulti smistati a Mineo, sulla strada che da Catania porta a Caltagirone dove il villaggio un tempo occupato dai militari americani di stanza a Sigonella è stato trasformato in un C.a.r.a., cioè un centro di accoglienza per i richiedenti asilo, sembrano molto provati dal trauma del naufragio.
Il direttore della struttura Sebastiano Maccarrone, impegnatissimo a mostrare ai giornalisti ciò che per due volte ha cercato di mostrare a Matteo Salvini, vale e dire che il centro è nonostante tutto un miracolo di efficienza che tiene insieme la severità e la generosità degli operatori, cerca di stringere intorno ai naufraghi un cordone di protezione: «Scusate, non è il momento per incontrarli...».
Tempi duri, per il C.a.r.a. Non bastassero le polemiche del passato sulla gestione del villaggio («Il grande affare dei centri d’accoglienza», titolava mesi fa una rivista non ostile come Internazionale ) e su alcuni episodi di violenza, la stessa tratta dei migranti secondo la procura di Palermo che l’altro giorno ha emesso ventiquattro ordini di cattura, aveva una base addirittura dentro il centro per rifugiati. I nuovi arrivati non potevano scegliere momento peggiore…
Alla «Madonnina», Nasir racconta la sua storia con un filo di voce. Viveva con la mamma, un fratello e due sorelle a Kuliarchar, sul fiume Ghurautra, a due ore di macchina da Dacca. Vita grama. Molto. A un certo punto in famiglia non videro alternative. Misero insieme i soldi per l’aereo affidando al ragazzino il compito di fare fortuna: «Sono partito per Tripoli due anni fa, il 16 maggio del 2013. Per un po’ non è andata male. Lavoravo come meccanico a Garian, una città nel deserto a un’ora e mezzo a sud di Tripoli. Mano a mano, però, la guerra civile si avvicinava. A un certo punto, un mese fa, ho deciso: dovevo partire. Era troppo pericoloso, per me, restare lì. Dovevo partire».
«Ho preso un autobus, sono arrivato a Tripoli, ho cercato qualcuno che mi aiutasse a trovare un passaggio in nave verso l’Italia. Sono finito a Gergarish. Ci hanno ammassato in un capannone. Eravamo moltissimi. Mille, forse millicinquecento». Niente letti: «Dormivamo per terra. Senza neanche una coperta». Caldo infernale di giorno, freddo rigido di notte: «Per tenerci un po’ caldi ognuno si stringeva al suo vicino. Non vedevamo l’ora di partire. Ogni giorno era buono. Ma non arrivava mai. Finalmente, giovedì 16, ci hanno annunciato la partenza. Sabato».
Il racconto si accavalla con quello di Abdirizzak e Omar. Lui, l’amico rimasto a letto perché distrutto dall’esperienza e dalla fatica e un terzo compagno di viaggio bengalese, però, non finirono sotto coperta come i due ragazzi somali. Forse perché, anche se sul prezzo pagato tendono tutti a essere un po’ misteriosi, avevano dato ai trafficanti più soldi degli altri: «Ci ritrovammo in una trentina più in alto di tutti, sul peschereccio. Vicino al comandante siriano e all’altro pilota, un tunisino. Il siriano, beveva. Vino. Beveva, beveva e fumava hashish».
Insomma, era strafatto? Nasir non capisce. Neanche Sabbir, che viene da una cittadina vicina a Kuliarchar ed è arrivato qui qualche tempo fa con un’altra nave, capisce. Un po’ di mimica e fa sì con la testa: la sera il siriano non era più padrone di se stesso e men che meno del peschereccio: «A un certo punto, nella notte, dopo aver lanciato l’allarme chiedendo soccorso, abbiamo visto arrivare una nave. Era grandissima. E noi, cercando di affiancarla, le siamo finiti addosso».
Prende un foglio, la penna e disegna il peschereccio che punta dritto dritto, con la prua, contro la fiancata del portacontainer: «Istintivamente ci siamo spostati in massa indietro. Tutti urlavano. Da sotto, dove erano chiusi gli africani, sentivamo salire invocazioni di aiuto: “Help! Help!”. È stato un attimo. Il peschereccio si è rovesciato e siamo finiti in acqua. Cinque minuti, non di più, ed è andato a fondo. Siamo rimasti lì, cercando di restare a galla, forse mezz’ora. Non si vedeva niente. I marinai filippini della nave hanno buttato giù delle scalette di corda. Mi sono aggrappato, sono riuscito a salire. Erano tutti gentili. Ci hanno dato del caffè, del tè, delle coperte… Era finita. Finita, finalmente».