il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2015
«Le riforme si fanno con il consenso, non in solitudine». Enrico Letta mette a confronto il suo metodo con quello di Renzi
L’efficienza delle istituzioni democratiche rientra in questo discorso: in Italia il problema ha due caratteristiche a mio parere indiscutibili, è urgente ed è dirimente. Dunque, richiede soluzioni radicali e pronte, affinché la democrazia funzioni meglio e gli spazi di partecipazione siano sostanziali e non solo formali. Negli ultimi anni si sono fatti alcuni passi avanti importanti, ma le questioni principali sono ancora aperte. Penso, in particolare, alla funzionalità del Parlamento.
Siamo, temo, l’unico Parlamento al mondo dove la mattina non si sa di cosa si discuterà nel pomeriggio, dove si può cambiare l’ordine del giorno in un attimo. (…) Il lavoro imponente e utile elaborato dal comitato, costituito dal mio ministro per le Riforme istituzionali Gaetano Quagliariello, aveva indicato proprio in una radicale riforma dei regolamenti parlamentari la chiave per sciogliere molti nodi in materia. Da molte di quelle indicazioni si può ripartire. Altrimenti la retorica antiparlamentare che scuote i cardini della democrazia rappresentativa guadagnerà proseliti e ragioni.
Questi miglioramenti delle procedure di funzionamento del Parlamento devono andare di pari passo con il superamento del bicameralismo perfetto che caratterizza da sempre il nostro parlamentarismo. Renzi ha deciso di proseguire e rilanciare l’impegno sulle riforme. Ha fatto evidentemente bene. Anche su questi temi si riversa il desiderio di cambiamento che attraversa il Paese.
A mio avviso, del resto, il grande risultato del voto europeo, il 40,8 per cento al Pd, incrocia anche questa richiesta diffusa di istituzioni più moderne e capaci di decidere. In molti mi hanno chiesto perché anche noi non abbiamo scelto un percorso di iniziativa governativa, tanto sulle riforme quanto, soprattutto, sulla legge elettorale. Per la seconda, rispondo qui con convinzione che molto semplicemente per me è materia del Parlamento e non del governo.
Lo so: per molti si tratta di una questione formale secondaria. Io preferisco pensare che abbia a che fare con il riflesso di una cultura politica diversa, fondata su una visione più intransigente dei rapporti tra potere esecutivo e legislativo. Riflesso che per me si applica anche al percorso sulle riforme istituzionali che, dal mio punto di vista, il governo deve accompagnare, scandire, anche velocizzare, mai imporre.
Stiamo parlando di un processo costituente. E l’Italia ha già pagato pesantemente in passato la scelta dissennata – di centrodestra, ma anche di centrosinistra, per quanto riguarda il titolo V – di fare tra il 2001 e il 2006 riforme costituzionali e poi leggi elettorali a maggioranza semplice. Soprattutto di farle immaginando di soverchiare l’avversario politico, non con i contenuti delle politiche, ma con la scrittura delle regole. Forse uno dei punti più bassi della nostra vicenda politica, una discesa agli inferi.
Il Parlamento italiano può ora risalire oppure può reiterare l’errore e sprofondare di nuovo. Contano, secondo me, la qualità del confronto e la dimensione del consenso parlamentare. Le riforme – una buona riforma costituzionale e una buona legge elettorale – si possono ancora approvare con una maggioranza più ampia di quella esigua di governo.
Siccome credo davvero che l’esecutivo voglia farlo con il più largo consenso possibile – era questa, o sembrava questa, del resto, la ragione fondativa del Patto del Nazareno – faccio fatica a pensare che alla fine si arrivi all’approvazione in solitudine, con un pezzo di Parlamento sull’Aventino e un’altra larga fetta dell’Assemblea, articolata e rappresentativa, sulle barricate.
Poi, certo, ci sarà il referendum confermativo che, d’altra parte, ci sarebbe stato comunque. Ma non mi sembrano dettagli trascurabili né il percorso né la qualità del testo che verrà sottoposto al giudizio dei cittadini. Perché, evidentemente, il merito delle riforme conta. Ed è importante, sì, fare presto, ma soprattutto è importante fare bene. Una riforma pasticciata, o peggio ancora sbilanciata, ingessa il sistema, non lo velocizza.
E soprattutto deteriora la qualità della democrazia. Cosa dovremmo chiedere al complesso di riforme istituzionali e legge elettorale, dunque? Oltre al superamento del bicameralismo paritario, secondo me gli obiettivi prioritari devono essere il consolidamento della democrazia decidente e competitiva, e un ampliamento degli spazi di democrazia. Vale a dire, la capacità dei cittadini di scegliere sia la proposta di governo, sia i propri rappresentanti.
La democrazia competitiva – il confronto tra proposte alternative – ha una tradizione molto breve in Italia, che deve essere proseguita e consolidata. Servono, in altre parole, un governo forte e stabile e un sistema di pesi e contrappesi ben strutturato, a partire da un Parlamento altrettanto forte e legittimato. La legge elettorale è il patto che lega rappresentato e rappresentante, cittadini e Parlamento.
Il Porcellum ha letteralmente avvelenato la politica italiana e reso quasi incolmabile il fossato tra elettori ed eletti. (…) Abbiamo iniziato la legislatura con l’impegno solenne a rimediare alla nefandezza delle liste bloccate, a cancellare per sempre l’onta del “Parlamento di nominati”. È un impegno che possiamo e dobbiamo mantenere. È verissimo: il sistema italiano oggi è sbilanciato e a farne le spese è anzitutto la governabilità.
Bene, dunque, gli sforzi ambiziosi per ripristinare un equilibrio virtuoso e rendere la nostra democrazia in grado di decidere, di farlo con la necessaria stabilità, di avere un orizzonte di tempo ragionevole per governare il Paese. Andiamo avanti. Senza, tuttavia, cadere nell’errore opposto.