Corriere della Sera, 20 aprile 2015
L’addio a Elio Toaff, il rabbino che abbracciò il Papa: «Grazie all’insegnamento e all’esempio di mio padre, io imparai a non avere pregiudizi nei confronti dei sacerdoti cattolici... nel periodo delle leggi razziali e della guerra, furono proprio i preti che iniziarono generosamente a dimostrare ai perseguitati la loro solidarietà, con i fatti e non con le parole». Il 30 aprile avrebbe compiuto cent’anni
Le ultime immagini della vita pubblica di Elio Toaff, rabbino capo emerito della comunità ebraica romana e personaggio chiave della storia dell’ebraismo italiano, risalgono al 30 aprile 2014, quando i bambini iscritti all’asilo che già porta da anni il suo nome si radunarono sotto le finestre della sua casa, proprio di fronte al tempio maggiore di lungotevere Cenci. Rav Elio Toaff compiva 99 anni e i suoi familiari lo sorressero alla finestra mentre assisteva al taglio di una torta di 20 chili e al canto dello Yom huledet same’ach, ovvero felice compleanno.
Toaff si commosse, era una giornata di sole, c’era il futuro dell’ebraismo romano sotto la sua casa, la prova emozionante e concreta che la più antica comunità del Mediterraneo dopo la distruzione del secondo tempio di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo avrebbe avuto un futuro. Nonostante tutto. Nonostante la ferita dell’attentato proprio a quella sinagoga del 9 ottobre 1982, organizzato e attuato da cinque terroristi palestinesi, uno Shabbat (giorno di sabato) in cui si celebrava il bar mitzvah, la cerimonia di maggiorità religiosa di alcune decine di adolescenti. Un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, fu colpito a morte da una scheggia di una bomba a mano e altre 37 persone furono ferite. Toaff quel sabato non era lì, aveva accettato l’invito al tempio askenazita di via Balbo. Il rabbino capo, per non infrangere il precetto dello Shabbat, raggiunse di corsa la sinagoga di Lungotevere e riuscì a placare gli animi, a governare la sua comunità come un autentico capo spirituale, richiamando tutti al senso di responsabilità. Superando e vincendo la rabbia, il dolore, la disperazione.
Ecco perché, in qualche modo, i bambini radunati appena un anno fa sotto la finestra di fronte al tempio maggiore erano tutti suoi nipoti. Perché sarebbe difficile immaginare la Roma ebraica e la stessa vicenda della comunità ebraica italiana, prescindendo dalla figura di rav Elio Toaff. La celeberrima immagine che lo accomuna a Giovanni Paolo II durante la sua storica visita il 13 aprile 1986 al tempio maggiore (che fu inaugurato nel primo Novecento da quello stesso Vittorio Emanuele III che poi firmò nel 1938 le leggi razziali fasciste) fu la sintesi, e certo non la conclusione, del paziente tessuto di confronto e di dialogo tra gli israeliti romani e il Papa di Roma. Operazione non facile, basta ricordare che il ghetto di Roma funzionò (anche se senza cancelli e porte) fino all’entrata dei piemontesi nel 1870.
Elio Toaff era nato a Livorno (il suo accento è rimasto fortissimo fino all’ultimo) il 30 aprile 1915. Studiò al collegio rabbinico livornese sotto la guida di suo padre: a sua volta rabbino, si chiamava Alfredo Sabato Toaff. Però i suoi studi universitari si svolsero a Pisa, dove si laureò in Giurisprudenza proprio nel 1938, in tempo utile prima dell’espulsione degli ebrei dalle università come conseguenza delle leggi razziste volute dal fascismo. Fu nominato rabbino di Ancona dal 1941 al 1943. Entrò nella Resistenza, dopo essersi rifugiato a Città di Castello. Con la Liberazione, fu nominato rabbino di Venezia ma nel 1951, venne chiamato a Roma dove rimase capo spirituale della sua comunità fino al 2001. Un autentico record nella storia dell’ebraismo italiano. Oltre a guidare la comunità romana, ebbe molti incarichi nazionali. Fu presidente della Consulta rabbinica italiana, direttore del Collegio rabbinico italiano e dell’Istituto superiore di studi ebraici. In quanto all’Europa, è stato a lungo membro dell’Esecutivo della conferenza dei rabbini europei.
Toaff ha sempre visto nel dialogo e nel confronto lo strumento principale di governo della comunità. Sapeva bene di vivere in un Paese di profondissime radici cattoliche e faceva continuamente i conti con questa realtà. Scrisse, per esempio, nella sua autobiografia Perfidi giudei, fratelli maggiori edito da Mondadori nel 1987: «Grazie all’insegnamento e all’esempio di mio padre, io imparai a non avere pregiudizi nei confronti dei sacerdoti cattolici... nel periodo delle leggi razziali e della guerra, furono proprio i preti, quelli più semplici e modesti, che iniziarono generosamente a dimostrare ai perseguitati la loro solidarietà, con i fatti e non con le parole».
E proprio con i fatti, e non con le parole, Toaff riuscì a invitare Giovanni Paolo II in sinagoga siglando un autentico capolavoro religioso, culturale, storico e diplomatico. C’era sempre di mezzo il lascito del padre, come spiegò nel maggio 2010 in un’intervista rilasciata a Giacomo Kahn per «Shalom», la rivista dell’ebraismo italiano: «La nostra, in casa, era una religiosità vissuta con allegria, nella quale non è mai mancata la discussione, il dibattito, il confronto delle idee e delle opinioni. In quell’ambiente ho imparato che anche con le persone che ti sembrano apparentemente lontane nelle idee e nei valori si può trovare, con il dialogo e con la perseveranza, un piano comune per intendersi».
Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, ha detto: «I gesti e gli insegnamenti che hanno caratterizzato il magistero e la lunga vita del rav Toaff rappresentano uno dei momenti più alti nella storia, non solo dell’ebraismo italiano ma dell’umanità intera». Parole che racchiudono tutta la gratitudine degli ebrei italiani per un uomo che li ha rappresentati con rigore, dignità, forza ma anche, anzi soprattutto, aprendo le porte alla comprensione. L’unico rammarico è che l’idea di tanti di vederlo senatore a vita non abbia avuto una conseguenza concreta. Ieri sera le porte del tempio maggiore si sono spalancate fino a notte per permettere alla sua gente di recitare i Salmi e pregare per lui. E per ringraziarlo per i frutti di una vita irripetibile.