Corriere della Sera, 20 aprile 2015
Viaggio nei centri d’accoglienza libici. In 947 stipati in un’ex scuola: «Appena possono, ci pensano loro a scappare, e li capisco. Qui è una prigione. Un rifugiato ci costa sei euro al giorno solo per mangiare, ma i soldi sono finiti da un pezzo e ormai qualcuno muore. Qui dentro non c’è igiene, sicurezza, cibo. Né per noi, né per loro. Tra un mese io apro i cancelli e li lascio andare tutti». Parla Salah Abu Dabos, il direttore del Market Camp di Misurata
«No water no chance». Prima d’annegare, probabile, qualcuno di loro era passato da Zawiah. Ci passano tutti. Per mesi, fanno gli schiavi nelle case di Tripoli. Puliscono cessi e spazzano retrobottega. Arrangiano i soldi per Lampedusa. Ma ogni tanto l’Alba libica islamista li arresta e allora finiscono a Zawiah: sulla strada verso la Tunisia, il peggiore degli otto centri raccolta della Libia. Sessanta persone in celle che andrebbero bene per una quindicina. Una-turca-una da dividere in cinquecento. Il cibo poco, l’acqua pochissima.
Chi c’è passato, avverte gli altri con quella scritta sui muri: no water no chance. Se non c’è nemmeno da bere, fratelli, non vale questa pena durissima. Via di qui. Via dalla Libia. Scappate da padre Martinelli, il vescovo veronese di Tripoli, a vedere se c’è posto. O fatevi rimpatriare come i senegalesi e gl’indiani, che la sanno sempre più lunga. O fate come gli eritrei e i siriani che a casa non possono tornare, laggiù si spara, e non hanno altra scelta che tentare il mare: dove l’acqua c’è, eccome, ma le possibilità sono anche meno. «Noi vogliamo tenerli ancora per poco», è esasperato al telefono Salah Abu Dabos, 37 anni, che fino al 2012 lavorava al ministero dell’Interno di Tripoli e ora dirige il Market Camp di Misurata, il più grande di tutti, un’ex scuola con 947 profughi: «Appena possono, ci pensano loro a scappare, e li capisco. Se la situazione rimane questa, senza un intervento internazionale, qui è una prigione. Un rifugiato ci costa sei euro al giorno solo per mangiare, ma i soldi sono finiti da un pezzo e ormai qualcuno muore. Giovedì sera, c’era un’irachena incinta che stava per partorire. L’ho caricata in macchina e l’ho portata di corsa da un medico. Ho dovuto pagare di tasca mia. Qui dentro non c’è igiene, sicurezza, cibo. Né per noi, né per loro. Così non si può continuare: tra un mese io apro i cancelli e li lascio andare tutti».
Salpare dalla Libia è diventato più facile, arrivare in Italia no. Tra Zuwara e Zawiya, sono lì i porti dell’illusione che spesso diventano le porte dell’aldilà. Le bare naviganti, si vedono anche di giorno: la nostra intelligence ha calcolato che per bloccarle servirebbero quattro fregate, qualche corvetta, un pattugliatore. Hanno abbassato i prezzi, si dice, e si fanno più check-in: mille euro se ti pigi con altri settecento disperati e rischi d’affogare poche miglia in là, il motore guasto, aspettando che qualche nave raccolga l’Sos lanciato dagli scafisti via satellitare. I bambini, bontà criminale, qualche volta pagano meno. «Negli ultimi sei mesi le barche sono peggiorate e c’è molta più paura», ha denunciato la scorsa settimana una dirigente dell’organizzazione Onu per i migranti, Jo-Lind Roberts: i miliziani d’Alba libica sono impegnati a combattere le truppe del generale Haftar, così basta un po’ di bel tempo e un controllo più blando perché il viaggio in Italia diventi ad alto-rischio-basso-costo. C’erano i tempi di Gheddafi, che bloccava le partenze. Ma ci sono stati pure questi anni di pattugliamenti, coi guardacoste tripolini della base di Garabulli che almeno ci provavano: 50 km di spiagge controllate, un paio di recuperi al giorno, 5 mila salvataggi... «Da un po’ di settimane non mando più fuori i miei uomini – è stata qualche giorno fa la protesta in tv del comandante, Mohammed Dandi —. Abbiamo mezzi che non potrebbero navigare oltre le 5 miglia e invece vanno fino a 50. A due dei miei, hanno sparato in mare mentre soccorrevano un gommone. A un altro, sulla porta di casa. Un ufficiale è in ospedale per esaurimento nervoso…». Il comandante sa che così ne moriranno a migliaia, ma che farci? «Viene prima la nostra pelle, della loro».