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 2015  aprile 20 Lunedì calendario

All’ufficio postale, sull’autobus, in metropolitana, sulla banchina del treno, nell’anticamera del medico, all’aeroporto: dovunque ci sia un’attesa, tutti hanno il cellulare in mano. Sguardo rivolto al visore dello smartphone, pagina Facebook aperta i trenta quarantenni, o digitando in Whatsapp i ventenni. Siamo tutti connessi e impegnati a dialogare con altri che si trovano altrove, lontano

All’ufficio postale, sull’autobus, in metropolitana, sulla banchina del treno, nell’anticamera del medico, all’aeroporto: dovunque ci sia un’attesa, tutti hanno il cellulare in mano. Sguardo rivolto al visore dello smartphone, pagina Facebook aperta i trenta quarantenni, o digitando in Whatsapp i ventenni. Nessuno, o quasi, legge un giornale o un libro, oppure guarda fuori dal finestrino, osserva il paesaggio o gli altri intorno a sé, o ancora conversa. Sovente le persone camminano con il cellulare in mano.
Siamo tutti connessi e impegnati a dialogare con altri che si trovano altrove, lontano. L’attesa, come ha scritto tempo fa Giovanni Gasparini in Sociologia degli interstizi (Bruno Mondadori), ci parla del tempo e della complessa relazione che gli individui intrattengono con il futuro. Ci sono due tipi di attesa: l’attesa-sospensione e l’attesa-previsione. Della prima non c’è quasi più traccia, della seconda non saprei. O forse la seconda ha inglobato la prima: tutti sono protesi verso quello che accadrà: futuro anteriore. Di sicuro lo spazio della sospensione, che Gasparini chiama «interstizio», riferendosi a tutte quelle esperienze che «stanno fra», è scomparso. Non esiste più il vuoto dell’attesa perché l’attività con i cellulari lo riempie. Si è passati dalla telefonata, che era la pratica cui ci si dedicava nei primi tempi della loro diffusione, all’attività silenziosa, che consiste nello scrivere su tastiere virtuali. In Facebook, nella propria bacheca, incollando le foto scattate, o sbirciando nella bacheca degli altri, oppure comunicando «a raffica» sfiorando i tasti di Whatsapp, e quelli che servono a lanciare per il mondo i propri 140 caratteri tra hastag e chioccioline: la messaggeria quotidiana.
L’attesa appartiene a una di quelle pratiche che i sociologi definiscono di «relazionalità sociale», ma è, o meglio era, anche uno spazio vuoto in cui s’insinuavano attività di vario tipo, dalla lettura alla fantasticheria, dal dialogo alla riflessione. Tenendo il telefono in mano nessuno parla più con chi ha accanto. Tuttavia non è questo che colpisce. La nostra società attuale nutre una forte ansia verso lo spreco del tempo, un bene di cui siamo avarissimi, e che tuttavia ci manca sempre. «Non ho tempo», è una delle frasi più consuete. L’attesa è il tempo senza tempo. Oggi non c’è più. Tutti con il cellulare in mano: oranti di un’invisibile religione virtuale.