il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2015
Vent’anni fa l’addio a La Voce, tra le lacrime di Montanelli. In un libro Giancarlo Mazzuca rievoca l’infanzia, i maestri, i discepoli, le donne, i cavalier, l’armi, gli amori, la fede del grande giornalista, ma soprattutto ricorda quella straordinaria esperienza durata tredici mesi
È strano come le cose possano durare tanto poco nella vita, e restare tanto vive nella memoria. Lo scorso 12 aprile sono trascorsi vent’anni da quando, dopo appena 13 mesi di vita, La Voce di Indro Montanelli andò in edicola per l’ultima volta promettendo ai lettori che sarebbe stato un arrivederci, e invece fu un addio. I giornali possono morire di morte naturale o di morte violenta; nel caso de La Voce si aspetta ancora una sentenza definitiva – nonostante i non pochi sospetti –, ma di sicuro la fiamma di quell’addio brucia ancora adesso. L’ultima prova arriva dal libro di Giancarlo Mazzuca Indro Montanelli – Uno straniero in patria (Cairo Editore), le cui pagine più belle sono proprio quelle dedicate alla breve vita del quotidiano nato come scialuppa di salvataggio per il capitano e per “i suoi ragazzi” all’indomani della discesa in politica del vero editore del Giornale, Silvio Berlusconi. Il libro di Mazzuca – più schizzo dal vero che ritratto – ripercorre nel complesso sentieri già battuti; a 14 anni dalla scomparsa, l’“Indrologia”, oltreché una scienza molto poco esatta, è diventata un genere letterario.
L’infanzia, i maestri, i discepoli, le donne, i cavalier, l’armi e gli amori… Nulla di veramente nuovo, a parte la discutibile scelta di presentare l’ultimo Montanelli sull’orlo della fede, e di sorvolare sulle tante battaglie combattute in nome dei diritti civili, di una morale laica mai esistita nel Paese più cattocomunista del mondo. Quando si parla di Montanelli la regola dell’“io lo conoscevo bene” va a farsi benedire, perché, come peraltro lo stesso Mazzuca osserva, nei suoi racconti voler distinguere con il lanternino la cronaca dalla leggenda era da ingenui; gli piaceva far divertire i suoi lettori, ma anche far sognare i suoi commensali. E a proposito del pettegolezzo secondo cui sarebbe stato figlio illegittimo del principe romano Ludovico Spada Veralli Potenziani, quando Mazzuca osserva “il Vecchio, se ci fosse stato qualcosa di vero, in un momento di confidenze me l’avrebbe certamente confessato”, ci permettiamo di dubitare. Se una cosa l’ha detta a me, è vera (forse); se invece non me l’ha detta, è falsa di sicuro; ma se questo è il metodo adottato da Mazzuca, evviva il metodo dei fratelli Grimm.
Come si diceva, le pagine più ispirate sono quelle in presa diretta sull’avventura conradiana de La Voce, di cui Mazzuca fu vicedirettore, a partire da quell’indimenticabile 12 aprile 1995, con l’apparizione in lacrime di Indro Montanelli nell’assemblea di redazione all’indomani della messa in stampa dell’ultimo numero del quotidiano, pagato dal direttore di tasca propria (il giorno seguente furono tagliate le linee telefoniche, e noi redattori ci ritrovammo letteralmente in mezzo a una strada). Al Vecchio in lacrime che diceva di non darsi pace, prima che uscisse tra gli applausi, qualcuno gridò “Invece la dobbiamo ringraziare, direttore, perché ci ha regalato l’anno più bello della nostra vita”.
Era, e resta, la pura verità. Fu un anno, come ricorda Mazzuca, trascorso nella libertà e nell’euforia: la preparazione carbonara in un ufficio di via Turati, il boom di vendite iniziale, il genio dei fotomontaggi di Vittorio Corona che tutti criticavano e tutti copiavano, la quotidiana passeggiata gufatoria delle cinque di Vittorio Feltri, diventato direttore del Giornale, davanti alla vicina redazione di via Dante, l’emorragia di copie, l’improvviso arrivo alla condirezione di Gianni Locatelli (il personaggio più antimontanelliano che potesse darsi), il progetto di una chiusura lampo per consentire il cambio di direzione a cui la redazione disse di no, la scelta del Cda di non ricapitalizzare un quotidiano che nonostante tutto vendeva 60 mila copie.
È pur vero che da subito qualcosa non quadrò; quasi tutti gli imprenditori entrati nella public company, dopo avere promesso mari e monti, finirono per investire cifre ridicole. Scrive Mazzuca: “Il grande errore fu fidarsi della Piemmei: sotto il vestito niente. Dopo qualche settimana ho scoperto che con la mia liquidazione del Giornale (25 milioni di lire) ero diventato uno dei maggiori azionisti del nuovo quotidiano”.
La Voce, partita con 600 milioni di lire in cassa, nacque da subito come una sfida all’impossibile e come tale visse, volando troppo alto per non bruciarsi le ali. Eppure è impossibile capire Montanelli, l’estremo Montanelli, senza quell’esperienza estrema. “Ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino” rispose Picasso a chi gli aveva chiesto della sua ultima maniera; solo Montanelli, il “fascista” Montanelli, poteva aspettare di avere 85 anni per diventare “comunista”, e La Voce fu davvero una straordinaria luminaria finale di indipendenza e di anarchia, la gioventù incendiaria raggiunta nell’età in cui di solito si diventa pompieri; Montanelli era il primo a sapere quanto fosse grande il rischio, ma quel giornale e quella redazione gli piacevano anche per questo, perché gli avevano regalato il privilegio di andare controcorrente anche a se stesso.
Come per un maleficio, dopo quel 12 aprile di 20 anni fa La Voce non tornò più in edicola. Però non ha mai smesso di bussare alla memoria. “È un po’ tardi, ma alla fine mi sono convinto che padroni non bisogna averne. Perché anche quando cominciano bene, finiscono male…”.
Così Montanelli, nel discorso di congedo alla redazione del Giornale, nel gennaio 1994. Non so che cosa pensino i lettori del Fatto Quotidiano della reincarnazione; personalmente non ci ho mai creduto, quantomeno in quella degli uomini. Ma a proposito dei giornali, qualche dubbio mi è venuto.