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 2015  aprile 17 Venerdì calendario

Il fattore Yemen. L’intesa tra Usa e Iran sul nucleare non è bastata. Ora è l’Arabia Saudita a mettere a repentaglio i già fragili equilibri del Medio Oriente guidando una serie di sanguinosi raid contro i ribelli Houthi. E da settimane a Sana’a è tornata la guerra

Il succedersi di eventi diplomatici e militari di cruciale importanza sta scuotendo la situazione politica mediorientale. Lo sviluppo più significativo è l’intesa stretta tra gli Usa e altre cinque potenze mondiali con Teheran sul programma nucleare iraniano in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. Ma l’attutirsi delle ostilità tra Usa e Iran che, dal 1979, anno della cacciata dello scià, rappresentano un tratto destabilizzante della politica mediorientale, potrebbe non bastare ad arginare l’escalation della violenza in atto in Siria, Yemen e Iraq.
Comunque vadano le cose i vantaggi di un accordo tra Usa e Iran potrebbero tardare a manifestarsi, sempre che ve ne saranno, dal momento che i repubblicani del Congresso, i sauditi e gli israeliani stanno tentando di mandarlo in fumo. E anche nel caso in cui un accordo sarà ratificato e implementato, il presidente Obama potrebbe essere indotto dai suoi avversari a non cooperare con l’Iran in altre regioni del Medio Oriente. Intanto le crisi in Yemen e Siria s’inaspriscono, mentre in Iraq le forze governative hanno appena iniziato a scalfire le difese dello Stato Islamico.
L’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo hanno più interessi di chiunque altro nel mantenere inalterato lo status quo nelle regione: cosa che in passato sono riuscite a fare con un certo successo. Chi avrebbe potuto prevedere, alla fine degli Anni ‘50, che i movimenti nazionalisti e socialisti arabi sarebbero scomparsi, mentre l’Arabia Saudita sarebbe rimasta la monarchia assoluta e teocratica che è sempre stata? Ciò che stupisce, negli sviluppi delle ultime settimane, è la determinazione con cui l’Arabia Saudita sta tentando di imporre un cambiamento radicale nella regione e che sia pronta a ricorrere alla forza militare pur di conseguirlo. Nello Yemen, Riad ha lanciato una guerra aerea devastante, mentre in Siria sta appoggiando insieme alla Turchia i movimenti jihadisti radicali guidati dal Fronte Al Nusra.
Abbandonata la posizione tradizionale, estremamente cauta, oggi i sauditi impiegano le loro cospicue ricchezze per estendere la propria influenza, agendo tramite intermediari e mantenendosi vicini agli Usa. Nello Yemen l’aviazione saudita sta bombardando gli Houthi insieme alle unità dell’esercito locale rimaste leali all’ex presidente Saleh, un tempo considerato l’uomo dei sauditi e degli americani a Sana’a. Secondo la propaganda saudita l’intervento di Riad non sarebbe che una risposta alle azioni degli sciiti zaiditi, che appoggiati dall’Iran stanno tentando di assumere il controllo del Paese. Gli Houthi, che discendono dalle tribù zaidite delle zone montuose dello Yemen settentrionale, possono contare su un efficace movimento militare e politico chiamato Ansar Allah, la cui struttura si ispira al partito libanese di Hezbollah e che dal 2004 ad oggi ha resistito a sei offensive scatenate dal governo dell’ex presidente Saleh, all’epoca alleato dei sauditi. Saleh, che è a sua volta zaidita, è sostenuto dalle tribù zaidite della capitale, Sana’a, e pur essendo rimasto vittima della primavera araba yemenita continua a godere dell’appoggio di molte unità dell’esercito.
Cosa ha spinto l’Arabia Saudita a tuffarsi in una simile palude, fingendo che l’Iran, che ha un ruolo marginale, stia tirando le fila della minoranza sciita? Gli sciiti zaiditi, che si stima rappresentino un terzo dei 25 milioni di abitanti che popolano lo Yemen, sono molto diversi dagli sciiti dell’Iran e dell’Iraq. E benché lo Yemen non conosca una tradizione di ostilità tra sunniti e sciiti, la determinazione saudita nel voler inquadrare il conflitto in termini settari rischia di capovolgere le cose.
La posizione di Riad potrebbe essere in parte spiegata con motivazioni di politica interna. Madawi Al Rasheed, visiting professor saudita presso il Centro di ricerche sul Medio Oriente della Lse, afferma su A l Monitor che il giovane ministro della Difesa nonché capo della corte reale Mohammed bin Salman, figlio del re saudita Salman, vuole un’Arabia Saudita inequivocabilmente dominante nella Penisola araba. E aggiunge caustica che, per dimostrarsi all’altezza del compito tra fratelli e cugini più esperti di lui, scontenti e assetati di potere, ha bisogno di guadagnarsi un titolo militare, magari di “Distruttore degli oppositori sciiti e dei loro sostenitori persiani nello Yemen”. Un’operazione militare di successo in Yemen potrebbe fornirgli le credenziali di cui ha bisogno. Una guerra combattuta con l’appoggio del popolo contribuirebbe a raccogliere i liberal e gli islamisti sauditi attorno ai valori nazionali e a emarginare i dissidenti in quanto traditori. Una vittoria nello Yemen compenserebbe il malcontento che nasce dalla politica condotta da Riad in Iraq e in Siria, dove i sauditi sono stati superati in astuzia dall’Iran. E rappresenterebbe inoltre un gesto di sfida nei confronti di un’amministrazione Usa considerata troppo accomodante verso l’Iran.
Lo Yemen non è l’unico Paese in cui l’Arabia Saudita sta intervenendo con maggiore vigore. Nelle scorse settimane il presidente siriano Bashar el Assad ha riportato diverse sconfitte (la più significativa la caduta di Idlib) per mano del Fronte Al Nusra, che ha combattuto a fianco di altri due movimenti non lontani da Al Qaeda: Ahrar Al Sham e Jund Al Aqsa. Gli Usa hanno lanciato attacchi aerei contro Al Nusra, mentre la Turchia continua a trattare il Fronte come se rappresentasse i moderati. In un’intervista al New York Times, il giornalista e consulente del governo saudita Jamal Khashoggi ha dichiarato che, nella presa di Idlib, l’Arabia Saudita e la Turchia hanno appoggiato il Fronte Al Nusra ed altri jihadisti e ha aggiunto che «la collaborazione tra intelligence turca e saudita non è mai stata così stretta». Sorprendentemente, tale esplicita ammissione del fatto che l’Arabia Saudita sta appoggiando gruppi jihadisti considerati terroristici dagli Usa non ha richiamato molta attenzione. Intanto i combattenti dell’Is sono entrati in gran numero a Damasco, occupando parte del campo palestinese di Yarmouk, a meno di 15 chilometri dal cuore della capitale siriana.
L’Arabia saudita non è la prima monarchia che immagina di poter conquistare delle credenziali patriottiche e stabilizzare il proprio ruolo intraprendendo una breve e vittoriosa guerra all’estero. Un’idea molto simile animò nel 1914 i monarchi di Germania, Russia e dell’Impero austro-ungarico, costretti in seguito ad accorgersi, quando era ormai troppo tardi, che avevano segato il ramo su cui erano seduti. Analogamente, i governanti sauditi potrebbero accorgersi un giorno, a proprie spese, di essere riusciti molto meglio dell’Iran a distruggere lo status quo in Medio Oriente.
(Copyright The Independent.
Traduzione di Marzia Porta)