Libero, 16 aprile 2015
La tassa sulle pensioni divora 43 miliardi l’anno. Se lo Stato non drenasse risorse pure sugli assegni di vecchiaia, l’Inps chiuderebbe in attivo. Anche con le gestioni in profondo rosso di ferrovieri e dipendenti pubblici
Lo Stato si “ciuccia” oltre 43 miliardi di tasse l’anno sull’ammontare complessivo delle pensioni in pagamento che arrivano a 23 milioni di prestazioni per oltre 18 milioni di persone. A scorrere il secondo Rapporto (“Bilancio del sistema previdenziale italiano”), redatto anche quest’anno dal Comitato tecnico scientifico di Itinerari previdenziali, salta all’occhio il noto squilibrio dovuto sì alle gestioni in passivo (dipendenti pubblici, agricoltori, ferrovie, artigiani ), ma, soprattutto, l’influenza che il prelievo fiscale ha sull’effettiva spesa pensionistica globale. Basta scorrere i dati aggregati della spesa pensionistica complessiva per rendersene conto. E infuriarsi. Nel 2013 – spiega il professor Alberto Brambilla, ideatore del Centro studi e “padre” dell’adozione in Italia della previdenza integrativa – l’Italia ha sostenuto una spesa pensionistica complessiva di ben 214 miliardi. Ma l’anno scorso le entrate contributive effettive ammontavano a 189 miliardi. Logico quindi il disavanzo (che lo Stato copre a consuntivo) di circa 25 miliardi l’anno.
Il problema è che sui 214 miliardi di spesa pensionistica quella effettiva – le uscite reali per pagare i 18 milioni di pensionati – l’impegno effettivo è di 171 miliardi. Infatti ci sono le tasse sulle pensioni (ben 43 miliardi), che per lo Stato rappresentano una partita di giro e un incasso. Insomma, l’effettiva spesa ammonta a poco più di 171,5 miliardi di euro. Insomma, i contributi (189 miliardi), sarebbero più che sufficienti a pagare tutte le pensioni. Se non fosse che in passato la gestione dipendenti pubblici (ex Inpdap, da qualche anno assorbita nel SuperInps), ha portato anche l’anno scorso in dote un passivo di ben 26 miliardi. Questo perché lo Stato “datore di lavoro” per decenni non ha accumulato un centesimo di contributi. E quindi le coperture del disavanzo rappresentano un pagamento posticipato di quanto non messo “previdentemente” da parte. E se non ci fossero i versamenti – e le gestioni in attivo – di precari, parasubordinati e liberi professionisti, il rosso sarebbe ben più consistente, Se poi volessimo esercitarci a sommare il debito degli statali con quello delle Ferrovie (le FS sono ancora un’azienda di Stato al 100%), il passivo supererebbe i 30 miliardi. Meriterebbe un approfondimento a parte la gestione Ferrovie dello Stato. Secondo Marco Ponti, docente di Economia dei Trasporti, prima a Venezia e da tre anni al Politecnico di Milano e collaboratore del sito di economisti Lavoce.info, la gestione ferrovieri gode da anni di «un regime speciale di prepensionamento, purtroppo molto simile a quello degli esuberi di Alitalia, che determina costi annui per l’erario stimati in più di 4 miliardi di euro».
Costi che annualmente rimbalzano, affossando ulteriormente i conti del SuperInps, e che hanno consentito negli ultimi anni a FS di pavoneggiarsi con un attivo di bilancio.
A livello macroeconomico – e a puro livello teorico – resta il dubbio su cosa succederebbe in Italia se un bel giorno si consentisse ai lavoratori ultra 55enni (come hanno fatto recentemente in Gran Bretagna), di ritirare tutti i contributi previdenziali versati rinunciando al pagamento del vitalizio. Ovviamente, se oggi il sistema previdenziale pubblico traballa – e costringerà a settembre a riaprire il cantiere Renzi-Poletti con l’ennesima riforma – se mai dovesse passare un’ipotesi del genere non solo salterebbe l’Inps, ma anche allo Stato Italiano non resterebbe che dichiarare fallimento.
Il problema, semmai, è l’abnormità della tassazione sui redditi da pensione. Ben 43 miliardi di prelievo su una spesa di 214 miliardi, rappresentano quasi il 20% di prelievo. Se poi si considera che mediamente le pensioni italiane sono basse (la media nel 2013 è pari a 11.638 euro l’anno, meno di 900 euro al mese per 13 mensilità), si intuisce che la batosta fiscale è ben più consistente su chi, magari, ha lavorato più a lungo, con un reddito più alto e pagando contributi più consistenti.
I recenti interventi (invero un po’ pasticciati viste le ripetute bocciature della magistratura), per introdurre tasse di solidarietà indicano una strategia sempre più orientata a tosare fiscalmente adoperando l’alibi della solidarietà, ma andando a pescare dove c’è qualcosa da mungere.
La sempre promessa e mai recapitata “busta arancione” – che anche Renzi ha promesso di distribuire a breve ai lavoratori italiani – dovrebbe evidenziare quanti contributi si sono versati, il rendimento che questo capitale (il montante pensionistico), dovrebbe aver accumulato e, quindi, l’entità spannometrica dell’assegno. In Italia si contano – dal 1994 ad oggi – almeno una decina di annunci di imminente invio dell’estratto previdenziale. “Busta arancione”, (dal modello analitico adottato decenni addietro nei Paesi del Nord Europa), che farebbe infuriare molto più dell’eseguità dell’assegno previdenziale. Infatti – stante anche l’allungamento dell’età lavorativa (sfioreremo i 70 anni nel 2050) – difficilmente si camperà tanto a lungo da sperare di farsi rimborsare dallo Stato (o dagli enti di previdenza), quanto accumulato in 30, 35 o anche più di 42 anni di contribuzione.
Insomma, il banco vince sempre: o perché tassa (di più), o perché sposta sempre un po’ più avanti l’asticella del traguardo.