Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 16 Giovedì calendario

Se il rugby italiano dimentica il fair play. Scontro frontale (e digitale) sui soldi tra gli Azzurri e la federazione. Sconfitte in serie, ct con le valigie, ora le liti: la favola della palla ovale tricolore è finita?

Una volta per discutere di soldi nel rugby ci si attaccava al muro negli spogliatoi, oggi si usa Twitter. Forse è un progresso. Per il resto la questione è antica come il mondo, ovale e no. Gli azzurri sono in rivolta contro il Presidente federale Alfredo Gavazzi, che in vista dei Mondiale di settembre in Inghilterra vuole tagliare i gettoni di presenza in nazionale (6.500 euro a testa e a partita per Sei Nazioni e test-match) e legare il compenso (50.000 euro) solo all’eventuale e al momento improbabile qualificazione ai quarti. Martedì sera il capitano Sergio Parisse ha cinguettato una delle frasi incriminate di Gavazzi («dei pensionati sono stanco, al 15° posto del ranking non ci sono andato io») bollando il velenoso hashtag #portacirispetto. È seguito il retweet di tutti gli azzurri e azzurrabili, da Castrogiovanni a Bortolami, da Haimona a Ghiraldini. Uno scontro digitale ma frontale, il rischio è che il nostro rugby vada in pezzi.
Premio produzione
Gavazzi è un imprenditore bresciano e un ex pilone, ha saputo fondare e portare in alto sia un’azienda (ramo elettronica) sia una squadra come il Calvisano, ma la diplomazia non è il suo forte. Sulle sue convinzioni tira dritto come Matteo Renzi e l’idea di legare i danè alla produzione (di vittorie) ha un senso, anche se forse era meglio modularla con più garbo, magari parlando di «incentivi». Perché è vero che gli azzurri che militano in una delle due franchigie «hanno lo stipendio già pagato dalla federazione», e che con la scarsa competizione interna dovuta alla penuria di talenti italici chi afferra una maglia azzurra a volte rischia di considerarla più un posto fisso (con relativo vitalizio) che una sfida. Ma in nazionale ci sono anche tanti che, come Parisse, giocano all’estero, e reclamano una retribuzione al netto dei risultati.
Rischio Mondiali
Si rischierebbe dunque di fare figli e figliastri. Già in passato per questi motivi si era rischiato lo sciopero, il problema è che ancora una volta – pare una maledizione – rischiamo di presentarci ai Mondiali disuniti e, con un Sei Nazioni increscioso sulle spalle e un ct con le valige in mano, quando invece per coltivare una speranziella di battere Francia e/o Irlanda occorrerebbero serenità e coesione. Ieri Twitter ha taciuto, la Fir non ha commentato e sono tornati al lavoro gli avvocati e i procuratori. Gli unici che con le battaglie del grano sono sicuri di guadagnarci. A prescindere.