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 2015  aprile 16 Giovedì calendario

«Ginzburg, caro maestro». Antonio Scurati parla del suo nuovo libro in uscita oggi, “Il tempo migliore della nostra vita” sulle opere e l’impegno letterario del grande intellettuale, editore e fondatore della Einaudi. In parallelo scorrono le storie dei nonni paterni e materni dell’autore, dal fascismo alla fine del primo conflitto mondiale. Un Pavese inedito, il valore della testimonianza, il ruolo dello scrittore

Tre ritratti esemplari, tre storie che si snodano l’una accanto all’altra sotto la cappa tragica della Grande Storia, dal fascismo alla drammatica spianata del secondo conflitto mondiale. Non si intrecciano, ma in qualche modo si appartengono “affettivamente”: nel sentimento dell’autore e in quello di una generazione che ha tenacemente trovato ragioni per resistere al buio. È così che Antonio Scurati nel suo ultimo libro Il tempo migliore della nostra vita riesce a rivitalizzare una memoria collettiva senza farcene sentire estranei ma, al contrario, orgogliosi di una lontana appartenenza. La vita, le opere, la gioia della cultura del grande editore Leone Ginzburg, fondatore della Einaudi, l’intellettuale, il docente di Letteratura che a 25 anni firma il suo granitico “no” al fascismo rinunciando alla cattedra universitaria, corrono parallele alle esistenze di Antonio e Peppino, Ida e Angela, i nonni dell’autore. Operai, madri dal grande coraggio, artisti sfortunati e contadini. Non esiste confine tra straordinarietà e normalità ed anche questo è il valore del libro che ha la forza di una testimonianza, tra ricordi, lettere, aneddoti e un’accurata ricerca sull’epoca.
Scurati, è d’accordo sul valore di testimonianza da apporre come fascetta alla sua opera?
«Direi che è centrale. Rileggendo la storia siamo abituati ai lasciti di chi ha vissuto esperienze tragiche. Ecco, loro sono stati testimoni, non noi che guardiamo la tragedia in tv. E sono ancora lì a dirci che della nostra vita, alla quale spesso rimproveriamo una mancanza di senso, dobbiamo averne cura. Ci suggeriscono: apprezzate questa esistenza pacifica».
Nel libro lei riporta il grande dilemma di Ginzburg: vivere tra gli uomini, agire sulle loro coscienze o vivere di letteratura?
«Era il dilemma classico dell’intellettuale di allora, di Ginzburg come di molti altri. Il suo è però un caso particolare perché è riuscito a dare risposta ad entrambi i quesiti, cioè è entrato nelle coscienze con la cultura. E oggi, anche a distanza, l’interrogativo si ripropone; penso ai milioni di insegnanti che si sentono esclusi, fuori dalla storia. Noi non apparteniamo più a un orizzonte storico e siamo tentati dal dire “abbandoniamo i libri”».
Ed è cambiato anche il ruolo dello scrittore...
«Negli ultimi anni è ritornata la militanza civile dello scrittore, fino al rischio della vita talvolta. Ma questo non deve far dimenticare che la principale militanza dello scrittore deve esercitarsi attraverso i suoi libri».
Nell’ultimo capitolo, lei si chiede «cosa avrei fatto io al loro posto?» e constata come «siamo ad un punto morto della storia». Quanto pesa l’assenza di maestri?
«Siamo figli senza padri. È un po’ il tema sviluppato nel mio precedente romanzo, Il padre infedele. Non perché manchino scrittori di rilievo ma, credo, perché oggi in tutto il nostro mondo è venuta meno la funzione magistrale. La costruzione mediatica di un autore si fonda sulla visibilità, che è accreditamento ma spesso anche discredito. La scuola, l’università, hanno disperso quel significato di insegnamento che era centrale, ad esempio, nell’opera di Ginzburg. Il maestro di un tempo era la guida. Dal ’68 l’abbiamo rifiutata: nessuno aveva il diritto di dirsi maestro di vita. E ci siamo indeboliti».
Nelle sue pagine offre anche un ritratto abbastanza inedito di Cesare Pavese, quello che dice «La storia non va con i guanti. Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci».
«Sì, è vero. Ma non si tratta di un “altro” Pavese. Semplicemente questa frase appartiene al taccuino segreto, pagine strappate dal suo Mestiere di vivere e mai tradotte in Italia. Lì c’è la parte più malinconica, più controversa, disperata e anche scabrosa dello scrittore. Fin da ragazzo è sempre stato un grande misogino, un uomo preda dei propri stati emotivi. La morte di Leone Ginzburg è sorretta da un’armatura etica, Pavese invece si priva della vita perché per lui non ha più senso. In qualche modo è anche un torto che fa alla fine del suo grande amico».
Delle tre storie che racconta nel suo libro, a quale è più affezionato?
«Forse a quella di nonno Peppino, che non ho mai conosciuto e forse proprio per questo motivo: è un ricordo lasciatomi da altri. Era l’artista mancato che si è dovuto piegare a fare il macellaio perdendo la “luce”».
Parlando di Ginzburg non possiamo non pensare allo “stato delle cose” dell’editoria di oggi. Non crede che ci troviamo in una situazione di stallo, in una sorte di palude?
«Credo di sì. Sono certo che l’editoria, così come è stata inventata da uomini come Ginzburg, come impresa di cultura, è definitivamente scomparsa. È stato un fenomeno storico che si è consumato e concluso con gli anni Settanta. In questi giorni, ad esempio, parliamo di acquisizioni, ma questa è finanza non editoria. Non ci rimane che congedarci nel modo più giusto dal passato elaborando il lutto e andando avanti riesumando quel legame indispensabile con la dimensione del “profondo”. Coltiviamola».