il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2015
Francesco Piccolo racconta com’è nato “Mia madre”, il nuovo film di Nanni Moretti da oggi nelle sale: «Nanni è rigoroso, spesso lavora contro la pellicola che gira, sei tu che lo devi convincere. Ma ha sempre voglia di fare una pausa al bar»
«C’è una frase di Madame Bovary – “Emma si accostò al camino” – che piaceva molto a Proust. L’autore della Recherche annota: “Flaubert non dice mai che la protagonista sente freddo”. Proust vuol sottolineare che fino ad allora si era descritta la sensazione del freddo, enunciandola. E forse, aggiungo io, Proust voleva dire anche che Flaubert, senza saperlo, stava scrivendo cinema». Questa cosa Francesco Piccolo – autore di libri e di film – non l’ha raccontata a noi nel corso dell’intervista che state per leggere. L’ha detta prima di Natale, durante una puntata di Che tempo che fa. E chi scrive, ascoltando, è rimasta molto colpita. O forse – imparando la lezione dello sceneggiatore – dovremmo dire: ha smesso di farsi il nodo ai lacci delle scarpe e si è avvicinata alla televisione.
Oggi esce nelle sale Mia madre, ultimo lavoro di Nanni Moretti, scritto con Valia Santella e, appunto, Francesco Piccolo. A lui abbiamo chiesto che cosa significa esattamente – meglio: concretamente – scrivere un film. La sua prima risposta è ancora in un libro, La trilogia della città di k di Ágota Kristóf: «“Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe, è meglio evitare il loro impiego, attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti”. Ecco, questo è il cinema».
La concretezza è la prima cosa che ha imparato nel cinema?
«Usare meno teoria e più pratica dovrebbe essere anche una regola della letteratura. Il cinema è costretto a trarre conclusioni da quello che mostra perché non può spiegare. Se la letteratura ti espone poco e ti racconta molto è meglio».
Nei film ci sono le immagini: tolgono o aggiungono alla scrittura?
«È difficile dirlo. A me piace così tanto scrivere per il cinema perché non penso che le immagini possano togliere. La sceneggiatura è una forma autoriale parziale, è come se fosse mozza: scrive d’immagini, immagina immagini, tenta di fondarle. Anzi, concretamente le ha. Però deve arrivare qualcuno dopo – o, come spesso accade, quel qualcuno è già con te in sceneggiatura – per renderle possibili. Per questo l’autore è il regista: tutto quello che riesce a essere una sceneggiatura, anche la “più perfetta”, è una possibile, altissima speranza che succeda qualcosa. Ci si ferma sulla soglia dello “speriamo che succeda quello che abbiamo scritto”».
La sceneggiatura però viene prima: è ciò da cui tutto nasce.
«È l’impalcatura del palazzo. Ma, con quella sola, le case non sono abitabili. I palazzi, poi, si differenziano tanto uno dall’altro proprio perché arriva qualcuno – che li trasforma e li “agisce” attraverso il suo gusto. Anche se lo sceneggiatore ha un gusto, poi deve affidarsi al gusto degli altri. Quindi: nella sceneggiatura c’è tutto, eppure al tempo stesso non è niente. Forse è per questo che molti sceneggiatori, anche nell’esperienza italiana più recente, passano alla regia. Per un senso di frustrazione che è insito nello scrivere per il cinema».
Si dice «scrivere per cinema», complemento di vantaggio.
«La sceneggiatura è al servizio del film, non è il film. Quando hai finito di scrivere un libro l’azione è compiuta. Mentre quando hai finito di scrivere per il cinema, non è ancora successo niente. Tanto è vero che quel film può anche non essere realizzato. Tanto è vero che uno non legge le sceneggiature. Cioè si legge il Mastorna di Federico Fellini, perché è una sceneggiatura mitica, ma insomma sono casi rari. La migliore sceneggiatura del mondo è sempre in bilico, in equilibrio quasi perfetto tra una realizzazione ottima e un fallimento. Dico “quasi” perché una sceneggiatura brutta non ha nessuna possibilità di diventare un bel film, mentre una sceneggiatura bella può diventare un film mediocre».
Perché il cinema in Italia è una scrittura plurale?
«È un mistero, all’estero non è così. Il cinema in Italia si è cominciato a scrivere collettivamente dai tempi di Maccari, Amidei, Sonego. Si vedevano in sei o sette: uno passava, scriveva i dialoghi di un film poi magari si metteva a scriverne un altro. Per me è l’aspetto più importante del lavoro per il cinema. Quando ho cominciato avevo paura. Pensavo che la creatività fosse data in quantità determinata, a un certo punto si esaurisce. Le razioni di creatività ti devono bastare e dunque se le distribuisci finiscono. Ho scoperto che è il contrario, ho imparato ad alimentare le energie che servono per la scrittura. Mi è successo ultimamente di scrivere un soggetto da solo per il cinema: mi è piaciuto, ma preferisco di gran lunga farlo con altri. Nanni Moretti teorizza che tre sia il numero perfetto per scrivere un film: in due è poco assembleare, in quattro troppo. Con Virzì, con Nanni, con Soldini abbiamo scritto sempre in tre. Succede una cosa strana: si crea una specie di centro che raccoglie le teste di tre persone. Non è la somma di tre modi di vedere, sentire o scrivere ma diventa una cosa altra, separata. È come se confluissero lì tutte le cose migliori».
Com’è andata con Mia Madre? Dopotutto era sua madre, argomento delicatissimo…
«Rispetto al Caimano e Habemus Papam è stata un’esperienza molto diversa. I film di Nanni sono tutti personali. Ma questo è un film autobiografico, lui stesso lo ha dichiarato. Le due volte precedenti siamo arrivati a un film personale, questa volta siamo partiti da un film personale: era la premessa di tutto. La combinazione di pudore e spudoratezza che si vede sullo schermo è la stessa che abbiamo dovuto avere io e Valia nei confronti della sceneggiatura. Dovevamo avere per forza pudore rispetto a cose così private, così dolorose e però anche la spudoratezza di maneggiarle, di usarle. L’apice di questo processo è stato quando Nanni ha preso appunti dai diari del periodo della malattia di sua madre».
Moretti ha detto che a vent’anni non avrebbe mai immaginato un film così.
«Credo sia naturale. Però c’è altro: per tutto il tempo della sceneggiatura mi sono ripetuto, come un mantra: se lo avesse fatto un po’ di anni fa, questo film lo avrebbe scritto da solo. Il suo modo di lavorare da La stanza del figlio in poi è cambiato. Ha dato alla sceneggiatura un ruolo diverso, è una fase della vita del film in cui lui ha voglia e bisogno di stare con altri. Immaginare che questo film in altri tempi lo avrebbe scritto da solo, però, per me è stato un approccio importante alle scene che scrivevamo».
È vero che tutti le chiedono «com’è lavorare con Moretti»?
«C’è – sempre! – una specie di sottotesto. Cioè: ma è così terribile come sembra? Invece Nanni è una delle poche persone – io non mi metto tra queste – che con il passare del tempo migliora, anche caratterialmente. Poi, per fortuna, la maggior parte delle sue nevrosi vengono fuori sul set, non prima. Una qualità che penso di avere nel rapporto con lui, è la pazienza di aspettare che i momenti difficili passino. Ma tutto sommato, in questi anni, sono stati pochi. Lavorare con Nanni è spesso molto divertente: si sta insieme parecchio tempo, ha sempre voglia di fare pausa, di scendere al bar a bere un cappuccino. Quanti cappuccini beviamo… Comunque ho imparato tante cose da tutti i registi con cui ho collaborato, ma da Nanni ho davvero imparato molto».
Per esempio, cosa?
«Le scene di servizio, quelle che ti servono per andare da un punto all’altro del racconto, non possono essere solo un passaggio. In ogni scena deve esserci qualcosa che valga la pena, la fatica di girarla. Deve succedere qualcosa, magari anche qualcosa di diverso rispetto alla funzione originaria. Altrimenti Nanni dice: “Io questa non la giro, questa la taglio. Non mi sveglio la mattina per andare a girare una cosa così”. Mi sembra di aver fatto tesoro di questo e di averlo portato con me in tutti gli altri lavori. E poi il rigore. Sono sempre stato meticoloso con i miei libri, ma lo sono diventato di più osservando il modo di lavorare di Nanni».
Momenti difficili durante la scrittura di Mia madre?
«È andato tutto più o meno liscio, compatibilmente con la delicatezza del tema trattato. In Habemus papam abbiamo avuto un paio di momenti più difficili. In genere Nanni è uno che lavora contro il film. È sempre necessario convincerlo. Tutto il contrario dell’entusiasmo con cui, tutte le volte, Paolo Virzì comincia i suoi lavori: tu hai sempre la sensazione che voglia fare quel film a tutti i costi. E questo ti dà una grande energia. Una spinta opposta, ma altrettanto forte, è quella di Nanni. Fin dal primo giorno tenta di non fare quel film. Con Virzì ti devi attaccare al suo entusiasmo e provare a stargli dietro. Con Nanni devi opporre una convinzione a uno che il film lo respinge. Però con Mia madre è successo di meno rispetto ad Habemus Papam e al Caimano».
Quanto ha influito la scrittura del Caimano sul Desiderio di essere come tutti?
«Mi sono fatto questa domanda molte volte. Il Caimano oggi viene vissuto come un film “paladino” dell’antiberlusconismo. Quando uscì fu accusato di non esserlo abbastanza o di esserlo pochissimo. Ci si aspettava da Nanni il film che lui non avrebbe mai voluto fare, in contrapposizione frontale. Secondo me però oggi il Caimano viene considerato un film “forte” proprio perché aveva intenzione di raccontare qualcosa di più complesso. Tornando alla domanda, il Desiderio di essere come tutti si snoda attorno ai condizionamenti. È una storia di influenze, suggestioni, dice cosa sono stato e perché: dunque certamente anche il Caimano ha influito in un percorso che è sfociato nel libro».
Nel Caimano e in Mia madre c’è un film dentro il film: perché?
«Perché Nanni racconta quello che fa. Di questo film la prima cosa da dire è che è un film sulla madre e sul significato della perdita. La seconda è che è un film sul cinema. Però l’intenzione non è mai il “metacinema”. Non facciamo mai teoria, stiamo sempre dentro le scene: questa cosa mi è successa anche con Virzì, con la Archibugi per Il nome del figlio. Magari la notte, nel letto, io ci penso a cosa stiamo facendo. Ma tra noi c’è sempre il pudore di dirselo perché poi si finisce per porsi degli obiettivi teorici quando si racconta una storia».
Non succede mai che chi interpreta il film, o chi lo gira, disattenda le aspettative di chi lo ha scritto?
«Certo: succede che quando lo vedi sullo schermo dici: “Non era questo il tono”, “così non va bene”. Però accade altrettanto spesso che l’interpretazione o la regia ti stupisca positivamente perché chi mette in scena quello che hai scritto aggiunge qualcosa in più. Ma il punto è quanta importanza si dà a questo “effetto collaterale” della sceneggiatura. Succede spesso che regista e sceneggiatore abbiano obiettivi diversi. Quello dello sceneggiatore è che il film somigli il più possibile alla scrittura. Il regista invece vuole essere il più autonomo possibile. Questa contrapposizione è una grande sciocchezza. Come ho detto prima, ho l’idea che la sceneggiatura è al servizio del film. Ha un valore assoluto – quindi la devi fare al meglio – e, contemporaneamente, in sé non vale niente. Questi due principi bisogna averli ben presenti, sempre».