Corriere della Sera, 16 aprile 2015
La folla silenziosa per le vittime del tribunale di Milano. La commozione davanti alle toghe sui feretri di Fernando Ciampi e del giovane Claris Appiani. Il cardinale Scola sull’assassino: «Attraverso una giusta pena prenda coscienza del male che ha fatto»
«Non si usa la settima candela». Un funerale di Stato non è un fatto frequente. Ancor più raro è che le minuziose istruzioni del relativo cerimoniale liturgico – come quella che dopo le disposizioni sul faldistorio e la situla dell’Arcivescovo prescrive al dodicesimo punto il non utilizzo della candela centrale sul crocifisso – siano distribuite ai giornalisti come invece è successo ieri.
Eppure alla fine conta anche questo dettaglio, insieme con lo sguardo dei familiari fisso su quelle due toghe piegate sopra i feretri, e con la presenza in prima fila del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e delle autorità, e del picchetto d’onore, e delle bandiere, e della folla composta che ha comunque riempito il Duomo, per rendere il clima con cui Milano e l’Italia – questo significa l’espressione «funerale di Stato» – hanno reso l’ultimo omaggio al giudice Fernando Ciampi e all’avvocato Lorenzo Claris Appiani, uccisi giovedì scorso in tribunale da Claudio Giardiello.
«Testimoni giusti perché quotidiani e discreti servitori del bene comune», li ricorda il cardinale Angelo Scola. Il quale oltre a una «giusta pena» invoca anche una preghiera per l’assassino. E una «maggiore responsabilità di educazione civica» per Milano. Che peraltro in quello stesso momento, fuori dal Duomo – classificato ormai da anni come obiettivo «sensibile» in cui tutti entrano solo previa ispezione del metal detector, compresi tutti gli avvocati e magistrati e amici delle vittime presenti al funerale – pare aver superato con una certa facilità lo choc espresso appena pochi giorni fa per la sicurezza violata in tribunale: in piazza soprattutto passanti, il traffico della città è tutto per il Salone del Mobile. In chiesa, intanto, Scola sta ammonendo contro il pericolo della «coltre soffocante dell’oblio».
E in effetti, dentro il Duomo, quelli che hanno il compito istituzionale di tenere viva la memoria ci sono. Oltre a Mattarella, i presidenti delle Camere, Laura Boldrini e Pietro Grasso, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, tanti parlamentari, il sindaco Giuliano Pisapia, il governatore Roberto Maroni, il prefetto Francesco Paolo Tronca. Scola li invita a non «fermarsi alla comprensibile paura, alla elaborazione di più rigorosi sistemi di sicurezza, a dialettiche talora strumentali tra le parti», ma a fare dell’amore «una sorgente di amicizia civica» per questa «Milano in profonda trasformazione», affinché «da queste morti nasca una maggiore responsabilità di educazione civica, morale e religiosa».
«E con travaglio – prosegue poi Scola parlando in terza persona – l’arcivescovo non può non volgere un pensiero all’assassino». Uno «sciagurato pluriomicida», dice, le cui «vittime innocenti ci chiedono almeno di pregare perché attraverso la giusta pena espiatoria prenda consapevolezza del terribile male che ha compiuto fino a chiederne perdono a Dio e agli uomini che ha così brutalmente colpito».
Un pensiero «difficile ma giusto», dirà alla fine Stefano Verna, il commercialista che Giardiello era riuscito solo a ferire e che ora manifesta la propria partecipazione al «dolore delle famiglie». La terza vittima, Giorgio Erba, nel Duomo di Milano non c’è perché il suo funerale è già stato celebrato in mattinata a Monza.
Pochi i commenti. «Su mio marito sono state dette tante parole – mormora la moglie del magistrato ucciso – e ora io non sono in grado di aggiungerne». Accanto a lei i figli. «Nessun rancore ma giustizia», dice il padre dell’avvocato Claris Appiani accanto alla moglie e alla figlia. Il cardinale Scola li aveva incontrati tutti, prima della messa, insieme con il presidente Mattarella nella cripta del Duomo. Incontro «molto intenso», dirà.
È stato il terzo funerale di Stato celebrato a Milano negli ultimi anni. I precedenti erano stati quelli di Mike Bongiorno, voluto dall’allora premier Berlusconi, e della poetessa Alda Merini su richiesta dell’allora sindaco Letizia Moratti.