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 2015  aprile 16 Giovedì calendario

«Non sarà un voto alla Armageddon...» ha esordito Matteo Renzi aprendo l’assemblea del gruppo Pd. L’aria era un mix di emozioni contrastanti, renziani eccitati per la «resa dei conti» e minoranze abbacchiate. In scena la resa. Bersani: «Non è un tema di disciplina di partito né di voto di coscienza, ma di responsabilità. Se si vuole si può cambiare, se invece si sceglie di andare avanti così io non ci sto»

«Non sarà un voto alla Armageddon...» esordisce Matteo Renzi aprendo l’assemblea del gruppo al posto del capogruppo, in barba alle barbose tradizioni parlamentari. Nel palazzo dei gruppi l’aria è un mix di emozioni contrastanti, renziani eccitati per la «resa dei conti» e minoranze abbacchiate. Sì, perché solo a riunione iniziata i nemici dell’Italicum trovano la «quadra» e, per non finire in cocci, decidono di non partecipare al voto sulla relazione di Renzi, come suggerito da Pippo Civati.
Ma come, Area riformista non aveva deciso di votare contro la relazione del premier? Contrordine, compagni. Indietro tutta. D’altronde, quanti sono i riformisti pronti a mandare in fumo la legge elettorale per gettarsi in mare aperto e senza scialuppe? «Il mio timore – sospira preoccupato Gianni Cuperlo – è che gli italiani non ci capiscano».
Brutto clima in casa Pd. La giornata era filata via per nulla liscia, tra telefonate cruciali (Renzi-Speranza), faccia a faccia (Renzi-Cuperlo) e l’inquietudine di tanti dem di sinistra stretti tra riconoscenza verso Bersani e lealtà a Renzi. «Tu ci sei stasera, vero?» è stato l’angoscioso interrogativo che, in Transatlantico, correva nei capannelli dell’opposizione, divisa tra non-renziani e aspiranti renziani. E alla fine il panico della diserzione ha spinto i bersaniani soft alla resa.
Ma adesso, alle nove della sera, parla lui e cita Kipling: «Per chi ama il Libro della giungla, fuori di qui ci sono tanti Tabaqui». Grazioso sinonimo di sciacallo. Renzi rispolvera il leit motiv del «Letta impantanato», strappa l’applauso sulle intercettazioni e finalmente, come i dialoganti speravano, semina qualche apertura sulla riforma costituzionale. Ma l’Italicum no, la madre di tutte le riforme non si tocca. Sancita l’intangibilità della legge elettorale il premier si mette a discettare di Imu agricola («un errore»), di università, povertà, città metropolitane...
Alle 21.30 Renzi ha finito e tocca al «povero» Speranza, come lo chiamano perfidi i renziani da quando hanno capito che le dimissioni del capogruppo erano ormai inevitabili. Nell’intervento più difficile della sua carriera spiega le «ragioni vere di un profondo dissenso», ma conferma lealtà al premier la cui «leadership è fondamentale». E poi, sposando la causa renziana: «Il destino del partito della nazione coincide con quello del Paese».
Lui in quella sfida ci sta dentro in pieno assicura Speranza e spiega che, se ha lanciato la sfida di «allargare», lo ha fatto perché in Aula si rischia di non reggere: «Nemmeno tutto il nostro campo, ora, è con il Pd...». Evocata la spaccatura dei dem, Speranza recita il suo atto di fede, «credo con forza in questo governo e nel Pd» e però ammette che la distanza tra quel che lui pensa e la «direzione di marcia è troppo ampia». Sono le 21.30 quando il deputato di Potenza, classe ‘69, annuncia: «Rimetto con serenità il mandato da presidente del gruppo». E mentre ci si interroga sull’irrevocabilità delle dimissioni il quasi ex si accomoda in platea: «Ho fatto la cosa giusta».
La riunione prosegue come nulla fosse. Cuperlo deve trovarlo surreale e prova a scuotere i renziani dicendo che le dimissioni di Speranza «sono un fatto serio», che merita la sospensione dei lavori... Ma no, Renzi non si ferma. Vuole un voto che formalizzi il trionfo e rimanda il dibattito sulle sorti di Speranza: «Non condivido la scelta, Roberto rifletti». Rosy Bindi è una furia e grida: «Fallo te un atto magnanimo e permetti di discutere di queste dimissioni adesso». Appello respinto e la presidente dell’Antimafia che gira i tacchi: «Non è giornata».
La proposta di rinvio è messa ai voti e bocciata e qui, alle 22.15, l’intransigente Fassina e lo sconcertato D’Attorre vanno a dormire, mentre i «buoni» di Area riformista (e Cuperlo) restano. Civati è basito: «Tutti matti!». Zitti, tocca a Bersani. «Molto incazzato», lo descrivono. «Non è un tema di disciplina di partito né di voto di coscienza, ma di responsabilità. Se si vuole si può cambiare, se invece si sceglie di andare avanti così io non ci sto». Sfida Renzi a ridiscutere «davvero» i pilastri della riforma del Senato e infine, come dopo uno schiaffo ricevuto: «Un partito che davanti alle dimissioni del capogruppo va avanti come se nulla fosse ha un problema».