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 2015  aprile 16 Giovedì calendario

Quando Cortázar scoprì Settembre Nero. Ecco il diario che lo scrittore argentino tenne nel 1972 durante il massacro di Monaco

La pioggia aveva lavato l’aria, un sole grande così non sembrava vero dopo quella notte diluviana; ho deciso di festeggiarlo andando a lavorare nei pressi delle Dentelles de Montmirail, che qualche vecchietta gigante del pleistocene aveva ricamato per il comodino dell’orizzonte nei suoi secoli di riposo. Ho trovato un rifugio solitario prima di Malaucène e ho acceso il fornelletto per il caffè e la radio, due modi di mettersi in orbita ed evitare la tentazione di arrampicarsi su per una rupe invece di lavorare; è stato allora che una canzone di Serge Reggiani si è interrotta e France Inter ha annunciato quello che era appena successo a Monaco.
Ho ascoltato, ovvio, con l’iniziale stupore dell’intelligenza addomesticata per la quale niente può succedere durante le Olimpiadi, a parte pungoli, giavellotti e altre turbolenze sportive; in un primo momento non ho associato quanto accaduto con le mie preoccupazioni letterarie e solo nel pomeriggio, mentre le notizie si succedevano incerte e ancora speranzose, un dialogo tra Marcos e Óscar mi ha scosso di fronte alla coincidenza degli eventi: qui dentro Fafner c’era gente che reclamava la liberazione di prigionieri politici latinoamericani in cambio del Vip, mentre la radio francese passava ogni cinque minuti da Frank Sinatra a Monaco, da Juliette Greco ai fedayìn, da Cannonball Adderley agli ostaggi israeliani.
(...) In attesa di notizie da Monaco, le bozze erano ancorate in acque profonde che scuotevano Fafner da tutte le parti con enorme collera di questo drago per niente incline a bagnarsi; meglio aspettare un momento pensando ad altre cose, l’esilio per esempio, la minuziosa montatura di una stampa ipoteticamente progressista (l’aggettivo rivoluzionario starebbe grande a entrambi, lei e me) che un paio di anni fa soffrì di un commovente attacco di patriottismo scoprendo tra le righe del Nouvel Observateur di Parigi che mi avevano dato la cittadinanza francese (era un errore ma non importa, me la daranno uno di questi giorni), ragione per cui giornali come La Gaceta di Tucumán mi trattano da scrittore franco-argentino, cosa che mi restituisce proustianamente alla farmacia Franco-Inglese dove tante volte in gioventù sono andato a comprare l’aspirina con il pretesto di una moretta che alla fine non ha mai voluto prendersi la pastiglia con me, cattivissima. Ovviamente nessuno sembra ricordare che un argentino conserva la propria nazionalità sebbene per ragioni pratiche – molto pratiche, come sanno bene i miei amici di qui dopo il maggio del ’68 – chieda la cittadinanza francese; è tanto più facile gettarsi nell’indignazione di fronte a qualcosa che visto dalla più elementare prospettiva socialista è di una ridicolaggine assoluta, il che non impedisce che numerosi rivoluzionari da calamaio continuino a optare per la bandierina e si dimentichino che a modo mio, da lontano, fregandomene di opinioni e direttive, sono stato e sono argentino quanto gli strilloni scandalizzati per il mio presunto doppio passaporto.
(...) Senz’altro doveva essere il secondo diluvio a Vaison-la-Romaine a farmi salire la rabbia (l’elettricità e cose del genere), ma di colpo ha smesso di piovere, ho visto la città vecchia in alto con tutte le sue luci e sono uscito a fare un giro, a comprare qualche scatoletta per la cena, e alla fine mi sono lasciato tentare da una pizzeria fragrante con le tovaglie rosse, che sono quelle che piacciono di più ai cronopios, e quando sono tornato da Fafner erano le dieci di sera e France Inter da Monaco segnalava i movimenti della polizia intorno alla casa del sequestro, senza sapere se avrebbero portato avanti l’assalto o se si sarebbe giunti a un accordo dopo dieci ore di negoziazioni. Per tutte queste ragioni non mi è sembrato troppo insolito tornare alle mie bozze e rileggere, nel bel mezzo di un dialogo molto poco serio, i preparativi per il sequestro del Vip; ovviamente, poiché nel mio laboratorio non ci facciamo mancare mai niente, nell’aggiornamento successivo mi è arrivata la notizia del sequestro del direttore della Philips a Buenos Aires; mai come in quel momento, mentre lavoravo alle bozze, mi ha colto una penosa sensazione di distanza perché Marcos e Susana erano ormai lontani da me, erano quel testo stampato irrevocabile, cosa avrei dato per entrare un’altra volta nell’appartamento di Patricio e portargli le ultime notizie, Monaco e Buenos Aires, vederli in faccia ancora una volta, sentirli legati a questa giornata come per tanti mesi li avevo sentiti vicini alla mia lettura quotidiana dei giornali che man mano gli passavo perché la povera Susana li traducesse a quei francesi chiusi che non erano nemmeno capaci di essere argentini.
Da Monaco avvisavano che i fedayìn sarebbero usciti da un momento all’altro con gli ostaggi, diretti verso un aerodromo; sembrava che le negoziazioni si fossero concluse e che il finale della storia sarebbe avvenuto in un altro paese. Meglio dormire, allora, Vaison era buia e silenziosa, fare il letto, fumare un’altra sigaretta interrogando il cielo, invocando la Pacha Mama perché mi regalasse molto sole mercoledì; credo di aver sognato dei treni, ma poiché quasi non faccio altri sogni forse sto mischiando i ricordi, quello scaltro mazzo di carte.
© 2006, 2012 Julio Cortázar y Herederos de Julio Cortázar
Traduzione di Giulia Zavagna
Per gentile concessione di edizioni SUR