il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2015
Eni, Descalzi è rimasto solo nella trincea della Libia. Rischio Isis: il governo sembra poco interessato al caos nel Nord Africa. I destini dell’azienda controllata dal Tesoro dipendono però da quello che succede a Tripoli
A metà marzo tutto sembrava pronto: il premier Matteo Renzi in Egitto spiegava al generale Al Sisi che bisogna “intervenire in Libia prima che le milizie dell’Isis occupino in modo sistematico non solo piccoli e sporadici luoghi ma una parte del Paese”. I militari spiegavano che era tutto pronto, anche il viaggio del presidente del Consiglio in Russia da Vladimir Putin era giustificato col tentativo di coinvolgere Mosca nella gestione della crisi del Nord Africa. Poi più niente, silenzio. Anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, dopo una fugace popolarità dovuta agli attacchi di una radio del sedicente Stato islamico, è sparito.
L’unico italiano che è rimasto in trincea contro i terroristi che stanno combattendo in Libia è Claudio Descalzi, l’amministratore delegato dell’Eni. “La situazione interna della Libia continua a rappresentare una questione per il management dell’Eni”, si legge nel bilancio depositato nei giorni scorsi presso la Sec, la commissione di controllo sulla Borsa americana di Wall Street. Il 27 per cento delle riserve di petrolio e gas della compagnia italiana è in Nord Africa e Medio Oriente, zone politicamente molto sensibili. Dopo lo stop di otto mesi seguito alla guerra del 2011, l’Eni ha ricominciato a produrre con una certa regolarità in Libia, con una media di 233 mila barili di petrolio equivalenti nel 2014, in lieve crescita rispetto al 2013.
Secondo un articolo del Wall Street Journal uscito l’8 aprile, questa relativa tranquillità dell’Eni dipende dai suoi accordi con tribù locali, in particolare i nomadi Tubu, parte del network islamista Alba Libica. In particolare la milizia si chiamerebbe “Scudo occidentale”. Questo spiegherebbe perché i tubi dell’Eni passano indisturbati accanto a campi di addestramento jihadisti e perché l’azienda controllata dal Tesoro continua ad aumentare la sua quota nel mercato libico (un terzo contro un quinto prima della guerra). L’Eni smentisce ogni accordo, comunque difficile da verificare perché sul terreno il gruppo guidato da Descalzi non opera direttamente ma tramite una joint venture con l’ente petrolifero libico, la Mellitah Oil & Gas.
A chi gli chiede spiegazioni per la capacità dell’Eni di fare affari nel Paese più disarticolato del mondo arabo Descalzi offre risposte più prosaiche di quelle suggerite dal Wall Street Journal. Primo: la Libia dipende per intero dal gas che estrae l’Eni, senza si paralizza quel poco che resta dello Stato e dell’economia, quindi tutti – e sul territorio di gente armata ce n’è tanta – hanno interesse che le estrazioni continuino.
Secondo: il grosso dell’attività di estrazione è off shore, in mezzo al mare, l’Isis finora si è mossa soltanto via terra. Difendere una piattaforma petrolifera è abbastanza semplice. Inoltre l’Eni ha buoni rapporti con chi comanda davvero in Libia: non il governo di Tripoli e neppure quello parallelo di Tobruk, a cui risponde il generale Khalifa Haftar. L’Eni parla direttamente con la Banca centrale libica di Saddek Omar El Kaber, storico centro del potere finanziario (da cui dipendono le tante partecipazioni azionarie, inclusa quella di Unicredit, ora custodita in Bahrein, come ha rivelato il Corriere della Sera) e con la Noc, la compagnia petrolifera nazionale che raccoglie il grosso dei profitti dall’estrazione di greggio.
Anche se dall’esterno può stupire, la Banca centrale libica paga gli stipendi dei funzionari sia del governo di Tripoli sia di quello di Tobruk. Il Paese è spaccato in due, ma regna l’armonia sulla divisione delle (poche) ricchezze locali: anche l’Eni non ha alcun problema con l’amministrazione locale, mentre l’Egitto (a parole molto più filo-italiano) è in arretrato con i pagamenti verso l’azienda per un miliardo. Questo non significa, però, che Descalzi sia tranquillo.
Da ex responsabile della divisione Esplorazione e produzione, l’amministratore delegato conosce bene l’Africa (sua moglie è congolese) ed è molto preoccupato. La sua analisi allarmata, che traspare anche nella formale prosa dei documenti di bilancio, è che in Libia ci sia pochissimo tempo. Lo ha spiegato più volte anche al premier Matteo Renzi: ignorare il problema libico significa lasciare spazio all’Isis, i cui successi innescano emulazione nel resto dell’Africa e in Medio Oriente. Un’invasione massiccia con truppe di terra, almeno 80 mila uomini, è impraticabile e rischierebbe di portare nuove reclute all’Isis. La strategia da seguire è chiara a Descalzi: l’Europa deve intervenire per tenere insieme la Libia ed evitare che diventi un altro Stato fallito e poi agire contro l’Isis sotto il mandato dell’Onu prima che anche Washington perda la pazienza di fronte alle incertezze europee.
Il caos libico seguito alla caduta di Gheddafi nel 2011 si sta saldando con le turbolenze geopolitiche innescate dal prezzo del petrolio a 50 dollari. L’Arabia saudita ha deciso di distruggere il settore dello shale oil americano, cioè l’estrazione del petrolio dalle rocce. Un campo petrolifero normale inizia a fornire greggio dopo quattro anni di investimenti, per lo shale oil bastano pochi mesi. Con la stessa rapidità con cui è esploso, il boom di questo settore si può sgonfiare, facendo crollare anche la catena di finanziamenti bancari costruita sui nuovi giacimenti. L’Opec, il cartello dei Paesi produttori, a ottobre ha detto di essere in grado di tollerare anche un petrolio a 40 dollari e questo ha scombussolato i mercati finanziari (per ogni dollaro reale nel settore petrolifero ce ne sono 20 di prodotti finanziari). Oggi c’è un’offerta di 94,5 milioni di barili al giorno a fronte di una domanda di 93,5 milioni. Perché il prezzo salga è sufficiente che la produzione scenda di qualche milione: o taglia l’Arabia saudita, o si contrae la produzione americana perché i prezzi troppo bassi fanno scoppiare la bolla dello shale oil. Le previsioni dell’Eni sono che il greggio passi dagli attuali 50 a 55 dollari al barile nel 2015 per poi salire a 70 nel 2016. Il gruppo guidato da Descalzi può reggere questi prezzi ancora per un po’, ma i Paesi produttori che vivono delle royalties (i diritti) sulle estrazioni soffrono.
Dal Venezuela – che ha ridotto i suoi costosi sostegni a Cuba – all’Africa: Nigeria, Ciad, Sud Sudan, Camerun, tutti Paesi che con guadagni petroliferi troppo esigui sperimenteranno forti tensioni sociali che lasciano terreno per i movimenti di protesta. A cominciare dall’Isis (che comunque si finanzia vendendo petrolio di contrabbando sottocosto e quindi risente del contesto). Normale che Descalzi sia preoccupato visto che il 79 per cento del petrolio Eni è estratto in Paesi considerati a rischio geopolitico e il 60 per cento del gas viene estratto lontano dai tranquilli Paesi ricchi dell’area Ocse.
Tra gli effetti (forse imprevisti) del petrolio low cost imposto dai sauditi c’è il miglioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Iran, la repubblica degli Ayatollah è un pericolo atomico ma è anche uno dei pochi argini contro l’Isis in Medio Oriente. I negoziati sulle centrali nucleari porteranno anche alla fine delle sanzioni sul petrolio, permettendo all’Iran di tornare sul mercato internazionale e ridimensionare il peso di Ryad. Ma non succederà presto.
I tempi iraniani sono sempre lunghi. Quelli della crisi libica, come Descalzi continua a ripetere al governo, sono invece rapidissimi.