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 2015  aprile 15 Mercoledì calendario

Rapido 904, assolto Riina: «Non fu il mandante della strage». Stiamo parlando della bomba che la sera del 23 dicembre 1984 causò 17 morti e quasi 300 feriti. Per i giudici quella bomba non può essere catalogata come l’inizio della strategia del terrore ideata dal «capo dei capi», otto anni prima degli eccidi del 1992

Considerata la valanga di ergastoli definitivi che lo tengono sepolto nella cella dove da quasi 22 anni sconta il «carcere duro», è un’assoluzione che potrebbe valere poco. Ma la dichiarazione di «non colpevolezza» guadagnata ieri da Salvatore Riina per la strage del Rapido 904 (17 morti e quasi 300 feriti nella sera del 23 dicembre 1984) ha comunque un peso. Per la storia d’Italia, innanzitutto: quella bomba – che resta un attentato di mafia perché c’è la condanna irrevocabile di Pippo Calò, il «cassiere» di Cosa nostra – non può essere catalogata come l’inizio della strategia del terrore ideata dal «capo dei capi», otto anni prima degli eccidi del 1992. E poi per Riina stesso, dipinto dal suo difensore Luca Cianferoni come un «parafulmine» buono per tutti i delitti insoluti o rimasti oscuri: dopo l’assoluzione per l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro (1970) ecco quello per la strage di Natale di trenta anni fa.
Sembravano processi persi in partenza, considerati il numero dei pentiti chiamati a testimoniare e il nome dell’imputato, ma è andata diversamente; segno che i giudici non si sono fatti condizionare dalla caratura dell’accusa e dell’accusato. E l’avvocato del boss a non perde l’occasione del contrattacco, tirando in ballo i servizi segreti: «Sono il vero problema della giustizia italiana in questi processi, bisogna aprire gli armadi con gli scheletri». Non a caso Cianferoni aveva chiamato a deporre il sottosegretario alla sicurezza e il coordinatore delle agenzie di intelligence. Tanti anni fa, nei processi per strage, gli uomini di governo e dei Servizi venivano convocati dall’accusa e dai familiari delle vittime, con scarsi risultati; stavolta ci ha provato il capo di Cosa nostra, cavandone nulla. Ma il suo difensore insiste: «C’è da chiedersi perché lo Stato ha sentito il bisogno, una volta di più, di chiamare il parafulmine Riina in questa vicenda».
In realtà l’origine del processo non è a Firenze ma a Napoli, la città da dove l’antivigilia di Natale del ‘94 partì il treno che doveva arrivare a Milano e invece si fermò in una galleria dell’Appennino, poco dopo Firenze, squarciato da un ordigno collegato a un timer. Furono gli inquirenti partenopei – nel 2011, a fronte delle condanna di Calò e al movente individuato nel diversivo cercato dalla mafia al lavoro del giudice Falcone che dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta aveva ordinato l’arresto di centinaia di uomini d’onore, gettando la base del maxiprocesso – a ipotizzare la colpevolezza del capo della mafia. Una sorta di «responsabilità oggettiva», rafforzata dalle considerazioni di qualche collaboratore di giustizia.
Poi però la Procura generale della Cassazione stabilì che il processo (come i precedenti) si sarebbe dovuto svolgere a Firenze. Gli inquirenti toscani hanno dunque ereditato un’indagine e un dibattimento che probabilmente si sarebbero risparmiati volentieri, visto che le prove non sembravano granitiche e la questione interessava più la storia che la giustizia. Ma c’erano i familiari delle vittime che ancora aspettano brandelli di verità; e c’era il dovere di dare seguito alle convinzioni che nel frattempo la Procura è andata maturando. Così ieri il pm Angela Pietroiusti (affiancata in aula alla prima udienza dal procuratore Giuseppe Creazzo) ha chiesto l’ergastolo per Riina, convinta della colpevolezza del boss «non perché non poteva non sapere o perché era a capo dell’organizzazione, ma perché esercitava questo potere. Solo con la sua autorizzazione è stato fornito l’esplosivo a Calò, e solo lui poteva deciderne la destinazione. Riina è il determinatore della strage, lui dà il contributo decisivo a un attentato di cui è il principale artefice».
Alla base di queste conclusioni c’erano le dichiarazioni di pentiti, oltre alla perizia chimica dell’epoca e ad altre coincidenze con le conclusioni dell’altro processo. Di tutt’altro avviso l’avvocato Cianferoni, per il quale non c’erano prove. La corte d’assise ha ritenuto che fossero quantomeno contraddittorie e insufficienti, e nel dubbio aveva l’obbligo di assolvere. Come ha fatto, dopo che Riina aveva abbandonato il suo posto nella saletta della videoconferenza e s’era ritirato in cella. Commento del difensore: «Processi così rendono simpatici anche imputati difficili come lui».