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 2015  aprile 15 Mercoledì calendario

Il no del governo a Tito Boeri. Il capo dell’Inps aveva proposto di rendere più flessibile il pensionamento per cambiare la legge Fornero. Un’idea che «non è sbagliata, ma per ora non è fattibile perché mancano le coperture finanziarie»

«La proposta di Boeri per una maggiore flessibilità di uscita dal lavoro non è sbagliata ma per ora non è fattibile perché mancano le coperture finanziarie». È così che una fonte autorevole di Palazzo Chigi frena sull’idea del presidente dell’Inps di modificare la legge Fornero e rendere più flessibile il pensionamento. Nulla di formale ma un’indicazione piuttosto netta di quale sarà anche in vista della stesura della prossima legge di Stabilità la linea del governo. D’altra parte il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si è tenuto costantemente alla larga dal tema socialmente esplosivo delle pensioni. Quando l’ha fatto – ormai quasi un anno fa – l’ha fatto per sgombrare il campo dall’ipotesi (sostenuta allora dall’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli) di un prelievo forzoso sulle pensioni medie, intorno ai 2-3 mila euro al mese.
Certo, solo la settimana scorsa, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, nel corso di un question time al Senato, ha detto che il dossier pensioni sarebbe stato riaperto in autunno. Ma fin dall’inizio Renzi e Poletti hanno sostenuto, senza scontri, due linee distinte sulla politica pensionistica e lo schema sembra destinato a ripetersi anche questa volta. A prevalere è sempre stato il premier.
È chiaro a tutti che la rigidità della riforma Fornero, con la cancellazione dell’istituto delle pensioni di anzianità, e la fissazione di un’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia sempre più alta (ora siamo a 66 anni e sette mesi) ha provocato uno sconquasso sociale: il fenomeno degli esodati che ha richiesto ben sei provvedimenti di salvaguardia per un costo totale di 12 miliardi di euro sottratti ai potenziali risparmi della Fornero; il sostanziale blocco del turn over nel mercato del lavoro con un aumento della quota di occupati over 55 e l’impennata della disoccupazione giovanile oltre il 40 per cento; il crescente fenomeno dei poveri di età compresa tra i 55 e i 65 anni che una volta persa l’occupazione ed esauriti i previsti periodi con il sostegno al reddito con gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e mobilità) non riescono a trovare, se non uno su dieci, un altro lavoro e sono spesso ancora lontani dalla quiescenza. Queste sono le ragioni di Poletti (e Boeri) a favore di un intervento. Di fronte alle quali, però, Palazzo Chigi pone il problema della copertura finanziaria. Perché rendendo più flessibile l’uscita dal lavoro si verificherebbe per il bilancio dello Stato un’impennata dei costi, con un incremento del deficit che verrebbe compensato, solo nel tempo, grazie alle penalizzazioni sugli assegni dei nuovi prepensionati. Dal punto di vista attuariale si presenterebbe come un’operazione neutra, la spesa previdenziale rimarrebbe sotto controllo nei tempi medio-lunghi, ma dal punto di vista delle regole contabili europee genererebbe nel breve periodo un deficit che andrebbe coperto. A meno di non aprire una vertenza con Bruxelles. «Richiederebbe molto tempo e questa discussione non è all’ordine del giorno», spiegano a Palazzo Chigi.
Nello schieramento con Boeri e Poletti ci sono, oltre che i sindacati, anche tutte le forze politiche. Questa settimana la Commissione Lavoro della Camera riprenderà l’esame delle proposte per una maggiore flessibilità in uscita. Alla base della discussione c’è la proposta del presidente della Commissione Cesare Damiano (minoranza Pd): età flessibile dai 62 ai 70 anni, 35 anni di contributi, penalizzazioni dell’importo pensionistico del 2 per cento per ogni anno di distanza dai 66. Proposta molto costosa, già secondo il precedente governo Letta. Per finanziarla servono, soprattutto all’inizio, diversi miliardi. Replica di Damiano: «C’è una montagna di risorse dove attingere per introdurre criteri di flessibilità in uscita per le pensioni». Risorse che, secondo il deputato pd, arrivano dal blocco delle indicizzazioni dei trattamenti pensionistici, e dai significativi risparmi che permette la Fornero fino al 2060. «Da questa montagna di risorse – ha domandato Damiano – si può ricavare quello che serve per correggere le più macroscopiche ingiustizie del sistema pensionistico senza mettere in discussione l’impianto e senza allarmare l’Europa?». La risposta di Palazzo Chigi per ora è no.