Corriere della Sera, 14 aprile 2015
Tortura, evoluzione di una parola. Dalla Convenzione internazionale sui Diritti umani al G8 di Genova
E così la Corte europea dei Diritti umani ha sentenziato contro l’Italia etichettando ciò che avvenne nell’irruzione alla scuola Diaz di Genova del 21 luglio 2001 come tortura. Deplorando poi il fatto che il nostro Paese non ne contempli il reato. Ma perché chiamare tortura quella che è stata una palese rappresaglia? Perché è di questo che si dovrebbe parlare e condannare. Lo Stato non si doveva abbassare ad un atto del genere sebbene in un contesto di un giorno di follia collettiva. Ma la tortura non è un’altra cosa?
Mario Taliani
Caro Taliani,
Salvo errore, una delle prime apparizioni della parola «tortura» nella legislazione internazionale del secondo dopoguerra appartiene alla Convenzione internazionale sui Diritti umani e civili promossa dall’Onu e aperta alla firma degli Stati nel 1966. Secondo l’art. 7, «Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico». Il testo è apparentemente chiaro, ma non contiene una definizione della tortura. Da allora, mi sembra capire, il compito di definire la tortura con maggiore precisione è stato lasciato ai tribunali internazionali e in particolare, tra gli altri, a quello del Consiglio d’Europa che si è recentemente pronunciato sulle vicende della Scuola Diaz. Ma non è escluso che altri tribunali giungano a conclusioni diverse e possano dare della tortura altre definizioni.
Credo che il problema sia politico e sociale piuttosto che giuridico. Gli orrori e i genocidi della Seconda guerra mondiale hanno avuto l’effetto di creare un maggiore sensibilità per i diritti umani e la speranza che un sistema giuridico internazionale, sotto il cappello delle Nazioni Unite, avrebbe costretto gli Stati a comportamenti civili. Quando hanno cominciato a scrivere i testi di quello che sarebbe potuto diventare un codice penale mondiale, i governi, i diplomatici e gli esperti giuridici hanno fatto ciò che accade spesso in molti parlamenti nazionali. Hanno deciso che i vecchi reati, con le loro denominazioni tradizionali, non bastavano a definire i nuovi orrori e hanno deciso di alzare il volume sonoro della indignazione usando parole, come tortura o genocidio, che, in passato, erano state usate in modo più preciso e circoscritto. Usata nel caso della scuola Diaz, la parola «tortura» corre il rischio di perdere il suo significato originale e di banalizzarsi.
Alcuni lettori, caro Taliani, mi hanno chiesto di aiutarli a distinguere le competenze del Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo da quelle della Corte europea del Lussemburgo. La prima è stata creata dal Consiglio d’Europa nel 1959 e si pronuncia su cause promosse sia dai governi, sia dai singoli cittadini (come nel caso di Genova). Può ordinare ai governi di correggere la propria legislazione e può fissare l’indennizzo che dovrà essere corrisposto al cittadino che è stato privato dei suoi diritti. La Corte di Giustizia europa, invece, è l’organo che vigila sull’osservanza degli impegni e degli obblighi comunitari assunti dai membri dell’Unione europea e dalle loro aziende. È stata creata nel 1957, l’anno in cui furono firmati in Campidoglio i trattati per la creazione del Mercato comune.