la Repubblica, 14 aprile 2015
Baby social, la merce inconsapevole dei padroni della Silicon Valley. Si scrivono messaggi su Whatsapp, postano foto su Instagram e passano il tempo libero su YouTube che ha appena lanciato il canale Kids, gratis e infarcito di pubblicità
Stavolta il marketing è arrivato secondo. Battuto dai bambini. Parafrasando un antico adagio latino, verrebbe voglia di dire che mentre Google e Twitter, Apple e Facebook discutevano di come conquistare i bambini e il ricchissimo mercato pubblicitario che rappresentano, i bambini hanno conquistato Internet. O sono rimasti impigliati nella rete, questo si vedrà. Ma quel che appare ormai certissimo e consolidato è che l’età d’ingresso nel fantastico mondo digitale si è abbassata fino ad un limite difficilmente superabile. Più delle indagini statistiche, che pure ci sono e fanno abbastanza effetto (la ricercatrice di Microsoft Dana Boyd è la numero uno in materia), lo dicono gli episodi. La vita vissuta. Qualche settimana fa per esempio il quotidiano americano The Washington Post ospitava un dibattito abbastanza surreale partito da questo titolo: “Vostro figlio ha meno di 2 anni? Non dategli uno smartphone”. Perché a 3 anni invece va bene? Ora, si fa presto a fare i moralisti: accade tutti i giorni. Quando un genitore inizia a giocherellare con il figlio usando un telefonino, solo allora nasce davvero un nativo digitale, che sempre più spesso in realtà era già finito a sua insaputa su una bacheca di Facebook il giorno del parto, così, tanto per festeggiare con gli amici di mamma e papà; ma è quando il bimbo scopre un telefonino connesso alla rete che qualcosa nella sua mente cambia per sempre. Può rivelarsi un cambiamento positivo o negativo, dipende da vari fattori come vedremo, ma non c’è dubbio che l’attrazione dei più piccoli verso questi strumenti elettronici – che in tutto devono apparire loro come delle scatole delle meraviglie –, è irresistibile. E comprensibile. Intanto perché è meglio del Paese di Balocchi di Pinocchio: dentro ci sono giochi, una serie pressocché infinita di giochi sotto forma di app che all’inizio sono gratuite o costano pochi centesimi, ma poi quando ti prendono davvero, ti richiedono di spendere per ogni aggiornamento – un trucchetto che al confronto il Gatto e la Volpe di Collodi sono due ingenuotti (e così le storie di genitori che si sono trovati la carta di credito prosciugata da una scarica di app sono all’ordine del giorno, ma in questo caso i veri colpevoli non sono certo i figli, ma gli adulti). Insomma, levate i giochi per bambini dallo store di Apple e Google e vedete cosa resta del loro fatturato totale.
Ma gli smartphone hanno al loro interno molto di più dei giochini: dentro hanno la rete, le chiavi di Internet. Il mondo là fuori, senza confini. Che per i ragazzini costituisce una calamita potente: è un attimo che si abituano a pensare che Google abbia tutte le risposte possibili, che Facebook abbia tutti gli amici che verranno, che per gli amici esistenti non ci sia niente di meglio di un gruppo su Whatsapp dove chattare dopo la scuola, che è figo scattarsi le foto buffe e metterle su Instagram e che il posto migliore dove passare il tempo libero sia YouTube. Anzi, iTube. Cos’è? In maniera rozza ma efficace, ovvero per come lo vedono loro, «è come iTunes ma è gratis»; ovvero è una versione di You-Tube che consente di farsi delle playlist di canzoni e risentirle anche quando non c’è rete. Sito numero uno. Per questo YouTube, quello vero, ha appena lanciato un sito “kids, bambini”, e l’ha infarcito di pubblicità oltre ogni limite a detta di molti. Perché non si tratta di portare i bambini e i ragazzini su Internet: si tratta di monetizzare il tempo, tanto, in qualche caso troppo, che già passano in rete.
Certo poi ci sono i divieti. Per effetto di una normativa americana sulla privacy che a cascata è stata adottata in tutto il mondo, sotto i 13 anni sarebbe, anzi è vietato iscriversi a molti social network. Ma chi controlla? Soprattutto, chi controlla in famiglie dove quando papà e mamma cambiano il telefonino, praticamente ogni anno e mezzo, il vecchio modello di iPhone o Samsung Galaxy, per citare i più venduti, finisce nelle mani del bimbo? Da questo punto di vista i telefonini stanno svolgendo la stessa funzione che aveva la tv sulle generazioni precedenti. Fino a 10 anni fa era la tv ad essere usata come babysitter d’emergenza parcheggiando i figli davanti al piccolo schermo per tenerli buoni; ora, che gli schermi sono sempre più grandi, per tenere occupati i figli molti gli danno uno smartphone: «Tié, gioca». Sottovalutando il fatto che a quel punto diventa difficilissimo toglierglielo. Pena capricci isterici. E come con la tv si stabilivano compromessi sempre meno solidi, «fai i compiti e poi hai mezz’ora di tv», adesso il baratto è con mezz’ora di whatsapp… I rischi naturalmente esistono. I bambini e i ragazzini non sono consapevoli davvero di cosa accade quando metti qualcosa di tuo in rete. Chi lo può vedere e condividere, che fine fa quella foto o quel messaggio audio (usatissimi, al posto dei vecchi sms). Non ne sono consapevoli e non possono esserlo perché i primi a comportarsi con leggerezza davvero eccessiva a volte sono i genitori. Qualche giorno fa su Periscope, la nuova app di Twitter per mandare video in diretta, è apparso l’annuncio che uno dei personaggi noti del web nostrano, era live: in realtà era live il figlio, che non avrà avuto 10 anni, ed era lì, inquadrato dal papà digital, a raccontare barzellette al resto del mondo, ignaro del fatto che dall’altra parte potesse esserci appunto “il resto del mondo” e che magari, fra 10 anni quel video qualcuno avrebbe potuto rinfacciarglielo. Ora, con le barzellette dei bambini non accade, ma il meccanismo è questo. Ed è meglio conoscerlo, altrimenti ci si fa male, come dimostrano i tantissimi casi di cronaca con adolescenti che si ritrovano le loro prime esperienze sessuali condivise da migliaia di estranei.
Un rimedio c’è. Ed è usare i telefoni e Internet per quello che sono: ovvero degli strumenti per condividere, collaborare, imparare. Chi lo ha detto meglio di tutti è Barack Obama in un videomessaggio di 40 secondi postato su YouTube naturalmente, un anno fa. Si rivolgeva ai giovanissimi americani, il presidente degli Stati Uniti, e ha detto loro in sostanza di usare la tecnologia e non subirla; progettare una app e non scaricarla; realizzare un videogioco e non giocarci e basta. Il senso vero della rivoluzione digitale non è creare una generazione di automi connessi, ma di liberare la creatività di ciascuno. Ed è su questo presupposto che in tutto il mondo si stanno diffondendo le lezioni di coding per bambini: imparare a programmare, non per diventare tutti informatici o ingegneri, ma per imparare a pensare, liberare la creatività, essere protagonisti. Non è una moda, il coding, è una vera rivoluzione, lo dicono i numeri. È l’altra faccia dei divieti che molti presidi, spaventati, impongono bandendo dalle classi telefonini, computer e persino smartwatch, come quello appena lanciato dalla Apple. «Fuori la rete dalle nostra scuole!» è la reazione sbagliata, agli errori che spesso facciamo noi genitori. E meno male che una generazione di insegnanti, gratuitamente, volontariamente, sta sperimentando una terza via. Se vogliamo dargli un nome questa rivoluzione si chiama coderdojo, si richiama ad una estetica che i giovanissimi conoscono bene, quella dei ninja e dei combattimenti di arti marziali, ma queste brigate si mettono assieme per imparare a programmare: si mettono in rete per diventare protagonisti. E magari inventare la prossima Google o la prossima Facebook e non diventare la merce inconsapevole dei padroni della Silicon Valley.