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 2015  aprile 13 Lunedì calendario

La grande fuga degli investitori dai Paesi emergenti. Scappano da Brasile, Russia e Cina, frenando la crescita globale. La colpa? Il ritorno del superdollaro e il calo delle materie prime, petrolio in testa

Alle prese con recessione, carovita, scandali e razionamento dell’acqua, oltre un milione di brasiliani sono scesi in piazza, lo scorso mese, inscenando una protesta contro corruzione e malgoverno. In Cina i valori delle proprietà sono crollati tanto da spingere un migliaio di società minerarie verso il collasso. In Russia, nonostante i richiami patriottici di Putin, i cittadini disertano le banche nazionali e risparmiano in valuta estera.
Mai così male dal 2009
E’ l’istantanea dello stress che affligge i mercati emergenti, ognuno con intensità e caratteristiche diverse, ma con un comune denominatore, la fuga degli investitori. Un’emorragia di capitali come non si vedeva dal 2009, secondo le serie storiche delle 15 principali «developing economies» compilate da Ing. Solo nell’ultimo trimestre del 2014, la fuoriuscita di denaro è stata pari a 250,2 miliardi di dollari, inferiore solo agli oltre 300 miliardi registrati subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria. Un fenomeno che è andato di pari passo con il calo delle valute degli Emergenti rispetto alla divisa statunitense. Il cambio dei flussi, da positivi a negativi, è iniziato circa un anno fa dopo che l’ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, aveva annunciato la fine del Quantitative easing, l’intervento pubblico sul mercato per iniettare liquidità nel sistema. Nelle sei settimane seguenti, i mercati azionari dei Paesi emergenti bruciarono il 16% della ricchezza. Il trend è proseguito, rafforzandosi, quando l’attuale numero uno della Fed, Janet Yellen, ha annunciato il prossimo rialzo dei tassi da sette anni schiacciati sullo zero.
Le economie emergenti pagano, inoltre, il ritorno del superdollaro e il calo delle materie prime, petrolio in testa. Il biglietto verde è protagonista del rafforzamento più veloce degli ultimi 40 anni, un rally che gli ha permesso di apprezzarsi dell’8% sulle valute emergenti. In alcuni casi il rimbalzo è stato vertiginoso, +61% sul rublo russo in un anno, +43% sul Real brasiliano e +19% sulla Lira turca. Fattore destabilizzante per chi detiene debito denominato con la divisa statunitense, ed è quindi costretto a pagare maggiori interessi, con le conseguenti ricadute sui conti pubblici e la contrazione dei profitti delle imprese nazionali.
Il peso di guerre e scandali
Se il calo del greggio agevola i conti degli importatori netti di materie prime energetiche, dall’altra mina la stabilità dei produttori, non tanto delle più solide petroleconomie del Golfo, ma di Paesi come la Russia già stretta nella morsa delle sanzioni americane ed europee seguite alla crisi ucraina. Ma anche di realtà come Venezuela e Brasile, che pur possedendo oro nero, non hanno a disposizione know-how tecnologico per estrarre e raffinare in maniera economicamente conveniente.
Il Brasile inoltre è alle prese con un generale calo dei listini delle materie prime alimentari, e soprattutto, con gli scandali aziendali e amministrativi, come dimostra il caso Petrobas. Il rallentamento della Cina, certificato dai recenti dati del Fmi (Pil previsto al 6,8% nel 2015 e al 6,3% del 2016, dal +7,4% del 2014) causa un generale indebolimento dei prezzi delle commoditiy, dai metalli alle materie prime alimentari. Ci sono infine le tensioni geopolitiche che, ad esempio, penalizzano la Turchia, la cui leadership non ha dato prova agli occhi degli investitori di prendere le dovute distanze da certo ambienti prossimi all’estremismo islamico. Realtà in controtendenza è l’India per cui l’Fmi prevede un balzo del Pil al 7.2% per quest’anno rispetto al 5,8% del 2014, forte di una domanda interna vigorosa che ad esempio manca alla Cina.
L’incognita dell’India
Ma su Nuova Delhi pesa l’interrogativo sui tempi necessari a sortire gli effetti da parte delle riforme volute dal Primo ministro Narendra Modi, e dalla cronica lentezza di burocrazia e giustizia locali. In questo quadro si rischia un rallentamento della crescita globale.
In secondo luogo c’è il rischio di una spaccatura in blocchi economici, come dimostra la nascita della Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture. E’ stata definita la risposta cinese - e non solo - a Bretton Woods considerata ostaggio degli Usa, che da una parte mantengono salda la reggenza della Banca mondiale e dall’altra ostacolano la riforma del Fmi verso una rinnovata governance che più adeguatamente rifletti i nuovi equilibri geo-economici del pianeta.