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 2015  aprile 13 Lunedì calendario

Il calcio (e il mondo) secondo Renzo Ulivieri: «Baggio è stato il più grande di tutti. Mantovani un maestro. A parte l’Italia, esultavo solo per l’Unione Sovietica, andavo a vedere le partite alla Casa del Popolo, tra sigarette e vino»

Centro sportivo di Coverciano, sala bar. Vetrate sul campo di allenamento della Nazionale, campo in perfette condizioni, foto dei trionfi ai Mondiali, ambiente sobrio, non c’è nessuno. All’improvviso il barman: “Compagno Renzo buongiorno…”. Compagno Pietro, buongiorno a te, risponde Ulivieri. Settantaquattro anni, quaranta passati sulle panchine di calcio, molte le squadre di A allenate, qualche B, anche serie inferiori, alcune promozioni storiche (vedi il Bologna), altri esoneri, la sciarpa rossa spesso al collo, anche fuori stagione, mentre gridava le indicazioni ai suoi giocatori. Toscano per cultura politica e atteggiamenti, la parolaccia capita, fa parte del bagaglio lessicale, idee politiche mai nascoste, come venerdì scorso quando ha pubblicamente mandato a qual paese il sindaco del suo paese, San Miniato, per aver rimosso la targa sull’eccidio del 1944, quando morirono 55 persone. Si siede al bar, e con Pietro inizia a parlare di cultura marxista.
Ulivieri, ha mai visitato un paese comunista?
Sono stato andato in Romania nel 1978, e lì ho incontrato Stefan Kovács, uno dei profeti del calcio totale, aveva il compito di controllare che tutte le squadre rispettassero le indicazioni governative.
Quali indicazioni?
Sì, esistevano ispettori della Federazione con il compito di controllare i sistemi di allenamento e di gioco. Poi organizzavano dei test tecnici, atletici ed etico-morali.
E quali erano i parametri etico-morali?
Se il calciatore conosceva l’etica socialista e partecipava all’etica comune della società civile. Il calciatore doveva essere d’esempio, vuol dire… (interviene il barista: “Magari per la costruzione di un qualcosa, un canale, insomma un’opera che coinvolgeva tutta la popolazione”).
Se ripensa ai test atletici di allora, li trova ancora validi?
Beh, ad esempio dovevano tirare dieci palloni in porta da venti metri fuori dall’area, e la palla doveva cadere dentro la porta senza toccare terra. Per carità, nulla di complicatissimo per chi gioca in serie A, ma se sbagliavano più di due volte erano squalificati.
Ma come giocavano?
Con la 1-3, un libero dietro e tre difensori a zona, anni dopo ho riproposto lo stesso modulo con il Cagliari, avevo un centrale adatto. (Sempre Pietro: “Maestro, raccontagli cosa ti è accaduto in Ungheria”)
Cosa è successo?
Ero lì per andare a caccia, ma a un certo punto volevano impormi un giorno di pausa; per convincerli a lasciarmi stare, e che ero uno di loro, all’improvviso gli ho recitato tutta la formazione della grande Ungheria degli anni Cinquanta. Si aprirono tutte le porte.
Quindi tifava Ungheria?
No, dopo l’Italia esultavo solo per l’Unione Sovietica, andavo a vedere le partite alla Casa del Popolo di San Miniato, tra sigarette e vino, i compagni schierati. Eppoi quell’inno…
Il suo giocatore preferito in quegli anni?
Amavo il capitano, Šesternëv, giocava centromediano, e io come lui.

Lo imitava?

No, non ero bono, ero una mezza sega.
In Italia per chi tifava?
Sono cresciuto con la strage di Superga, era normale sostenere il Torino, poi ho amato l’Inter, fino alla Fiorentina. (Si alza in piedi, indica alcune delle immagini appese, Riva, Cannavaro…) Ogni tanto qualcuno lancia un’idea malsana su questo posto.
Che tipo di idea?
Coverciano è famoso nel mondo, è uno dei grandi simboli del calcio, è un valore. Eppure qualcuno vorrebbe renderlo più commerciale, far cassa, magari concederlo per i matrimoni o i meeting, ma si perderebbe questa sensazione di sacralità. Venga qui, entri nell’Aula Magna, chi varca questa soglia automaticamente inizia a parlare piano. Per rispetto.
Delle immagini appese, qual è la sua preferita?
Forse i Mondiali dell’82, allora già allenavo la Sampdoria in serie A, eppure festeggiavo le vittorie in piazza, partecipavo ai caroselli. Fu un Mondiale di popolo.
Berlino, no?
In Spagna c’era Pertini, un valore aggiunto.
In questo periodo c’è una polemica sugli oriundi in azzurro…
Ci sono sempre stati, abbiamo vinto i Mondiali con loro, ma qualcuno se lo scorda. I nostri antichi con la valigia, andavano a sbarcare da qualche altra parte. Sono le 13, andiamo a mangiare…
(La sala da pranzo del centro sportivo è più simile a quella di una Casa del Popolo che a un grande ristorante: nessuna opulenza, tavola essenziale, anche qui vetrate sui campi da calcio. Menù da sportivi: pasta al pomodoro, braciola, insalata e torta di mele fatta in casa).
La politica le ha mai creato problemi nel calcio?
No, anche perché non ho mai tolto nulla al lavoro, fuori frequentavo e frequento i miei luoghi, magari la Casa del Popolo, un circolo Arci. C’è stato un momento nel quale essere di sinistra andava di moda.
Oggi un po’ meno?
Oggi è più difficile definire.
Ci sono giocatori, come il milanista Abbiati, sedotti dal Ventennio.
E allora? Io ho il busto di Lenin, ma rivendico il diritto degli altri a pensarla diversamente, certo proverei a convincerlo dell’errore. Comunque me ne sono capitati tanti, e con tutti ho discusso.
Un punto di passaggio per il calcio italiano, è stato l’arrivo di Berlusconi, e il berlusconismo ha attecchito…
Purtroppo per noi ha attecchito dappertutto. Quando andavo all’estero per il calcio, mi dicevano: pizza, mafia, catenaccio e Berlusconi.
Basta guardare le foto dei calciatori degli anni Sessanta o Settanta per percepire uno stile differente.
Di generazioni ne ho viste tante, il cambiamento l’ho vissuto su di me e quando ho iniziato a trovare i primi veri intoppi relazionali con questo modo, ho capito di essere io quello non più adeguato.
C’è stato un momento specifico?
Circa sette, otto anni fa, mi incazzavo di continuo con i giocatori, gli urlavo ‘noi non abbiamo il diritto di lamentarci, non abbiamo il diritto di essere tristi’. Ma era un errore mio, cercavo di correggerli.
Parametri differenti.
Ribadisco: errore mio. Ogni tanto gli dicevo: ‘domani non si fa allenamento’, e li portavo dai bambini malati negli ospedali con in mano i giocattoli da regalare.
E poi?
Per quindici giorni capivano. Quindici.
Qualcuno dei suoi ex calciatori, l’ha mai ringraziata per quegli urlacci?
Qualche anno fa incontro un medico, mi ferma: ‘Mister, si ricorda di me?’ No. Mi dice il nome. ‘Sapesse quanto l’ho odiata io e la mia famiglia’.
Cosa gli aveva combinato?
A suo tempo non era un granché, così lo spronavo a studiare, come calciatore sarebbe diventato un fallito.
Spesso sono le aspettative delle famiglie a creare i maggiori danni.
Sì, succede. Dove uno non è riuscito, vorrebbe realizzarsi attraverso i figli. Ma tutto questo va sempre inserito dentro un quadro generale, dove è cambiata l’ideologia, dove è fondamentale arrivare, e se non arrivi secondo tali parametri, diventa un dramma.
Il periodo più intenso della sua carriera?
A Bologna, eravamo tutt’uno con la città, non avevamo neanche la sala stampa, incontravamo i giornalisti sotto il portico, senza barriere. Mi divertivo da morire, i giornalisti pure. Quando sono andato via mi hanno regalato una Fiat 500.
I giornalisti? e perché la 500?
Scherzavo con loro e gli dicevo: ‘Ma voi che scopatori siete? Siete da stanza d’albergo e comodità? Ai miei tempi si praticava su una 500, e dopo aver finito con la bella, gli amici si ritrovavano alla Casa del Popolo e chi aveva il segno più marcato del tappetino sulle ginocchia, era l’amatore più duraturo’.
I giornalisti e la città sono stati fondamentali anche per la querelle con Baggio: per un anno non si è parlato di altro che del suo pessimo rapporto con il numero dieci.
È stato un giornalista a farmi comprendere il mio errore.
E come?
A fine anno, in una delle nostre chiacchierate, o discussioni, gli portai un prospetto con i numeri della stagione che raccontavano di due gol in più dell’anno precedente. E uno di loro replicò: ‘Ascolta, è andata così, è vero, ma un gol di Baggio ne vale otto rispetto a quello realizzato da Paramatti e Nervo: con una rete di Baggio posso scrivere una pagina, una gol di Nervo si sintetizza in due righe.
Con Baggio i tifosi sognavano…
Sì, ma non ci stavo, noi eravamo una squadra proletaria, dove realmente si sacrificavano per il compagno, eravamo un collettivo. Tutti noi portiamo sul lavoro le nostre origini, anche il pensiero politico alla fine va a incidere, e io avevo un occhio di riguardo per quelli che si sacrificavano di più, si massacravano negli allenamenti, arrivavano alla fine della partita con il gancio al mento (e si porta il pollice sotto il mento).
Nella sua carriera ha allenato altri grandi numeri 10, come Mancini.
Già nel 1982 era un ragazzino di grande talento, e con un gran fisico. E poi aveva origini comuni, bastava parlare con il suo babbo per rendersene conto. Persone perbene. Oggi è un’altra cosa.
Mancini ha giocato poco in Nazionale.
Perché non mi ha dato retta, sarebbe stato una grande primo attaccante, aveva uno stacco da fermo micidiale, lo vedevo meglio di Boninsegna, ma non voleva, gli garbava il ruolo di seconda punta.
Era la Sampdoria di un presidente-padrone come Mantovani.
Con lui ascoltavi, con lui imparavi, era uno che ti faceva un culo così, un maestro che mi ha insegnato degli aspetti, anche aziendali, che mi sono portato dietro tutta la vita.
Quindi c’era feeling…
Non proprio, una volta mi chiamò e mi disse: ‘Ma lei pensa che io non me ne sia accorto? È un mese che mi dà ragione, sappia che io la pago per conoscere il suo reale pensiero, poi alla fine decido io, ma io devo sapere’. Oh, quando era incazzato c’era da aver paura.
L’ex allenatore di Napoli e Inter, Mazzarri, è un suo allievo.
Un grande, gli voglio bene, ma è antipatico, tante volte gli ho detto di correggere, una volta stizzito mi ha risposto: ‘Ascolti (mi dà ancora del Lei) il mestiere mio non è quello di risultare simpatico, ma di vincere le partite. Punto’. E ha ragione.
Il mondo del calcio è uno dei più chiusi in assoluto, mai una risposta fuori posto…
Qui a Coverciano abbiamo prodotto uno studio sulle interviste: da cosa dire a come impostare lo sguardo, i gesti. Anche l’aspetto comunica. Poi, ovviamente, conta anche quello che dici. Il discorso è: se io forzo un concetto, tu giornalista lo ampli, e diventa un problema. Uno dei maestri era Helenio Herrera, allora ci insegnava quello che Mourinho fa oggi: io ti do qualcosa per distrarti da altro, ti do la polpetta di carne. E Mourinho, in questo, è un fenomeno.
In casa come presero il suo primo contratto importante da allenatore?
Mio padre venne fermato in paese, e qualcuno gli disse: ‘Ora Renzo non può più ritenersi comunista’. E la sua risposta fu: peggio per lui. Non solo, qualche tempo dopo toccò a me, mentre passeggiavo per San Miniato, il segretario del partito locale, un uomo di cultura normale, eppure in grado di elaborare dei concetti altissimi, mi disse la stessa cosa. E io: ‘Ascolta, allora ho capito male fino a ora, ma noi si doveva lottare per stare meglio o peggio?’ La sua replica mi fulminò: ‘È vero, però te hai preso una strada troppo corta e l’hai presa da solo’. Ancora oggi ci penso.
Ha ottenuto risposte rispetto alla recente vicenda di San Miniato?
Ma lei ha mai visto il film dei fratelli Taviani, La notte di San Lorenzo? Quel film racconta un episodio che ho vissuto, io c’ero, c’era la mia famiglia, e mi salvò mia mamma quando tolse dalla braccia di nonna: mi prese in collo e subito dopo scoppiò la bomba.
Nel 1986 è stato accusato di totonero da un suo calciatore del Cagliari, e in un’intervista del 1987 ha raccontato di essere talmente “incazzato da rischiare di spaccare la faccia a qualcuno. Mi ha salvato la mia cultura, la mia storia…”
Vero. Il processo fu taroccato, quando arrivi in certe situazioni scoprì sentimenti che non conoscevi.
Ad esempio?
Scoprii la vergogna, e lottare contro di essa è roba dura. Però è un sentimento che auguro a tutti, fa bene, è vita dura, ma ti forma. Allora, e per due anni, ho svolto indagini per conto mio, anche perché nessuno mi aiutava, quindi mi mossi da solo. Oh, non ho avuto alcuna necessità di utilizzare la forza, ma ero pronto anche a farne uso. Ero disposto a tutto.
Come è finita la vicenda?
Ribaltata tutta la sentenza, con queste parole: ‘Illecito consumato in sua assenza e a sua insaputa’. Però rimase l’anno di squalifica.
In quel periodo chi le è stato vicino?
Nessuno, solo Aldo Agroppi mi scrisse una lettera bellissima. Mi commosse.
La gioia di quando è tornato in panchina.
Poca, quando ho ricominciato avevo addosso ancora quelle pessime sensazioni, e l’arbitro mi ha espulso alla prima domenica.
Troppo nervoso?
No, un errore del direttore di gara, ma da persona perbene ammise il suo sbaglio… Venga, le mostro la palestra e i campetti laterali. (Ghiaino, attrezzi ginnici, la pista di atletica, dei ragazzi si riscaldano con il pallone tra i piedi mentre aspettano Ulivieri per una lezione di tattica).
Berlinguer diceva: “Spero di invecchiare mantenedo intatti i miei ideali da ragazzo”.
È una frase da abbracciare, io spero anche di mantenere il più a lungo possibile, e intatte, quelle poche facoltà mentali che mi restano.