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 2015  aprile 13 Lunedì calendario

«Non ho bisogno di sentire l’importanza del mio ruolo. Ho bisogno di vincere». Parla Carlos Tevez, alla vigilia della sfida al Monaco: «Io di calcio non so niente ma so tutto di "Violetta", la beniamina delle mie figlie»

Carlos Tevez, archiviamo Parma come un incidente e guardiamo oltre. La Juventus può vincere la Champions?
«Sì».
Sì e basta?
«Dortmund ha dimostrato che possiamo arrivare lontano. Dipende da noi».
Solo da voi? Non dal Barcellona o dal Bayern o dal Real o dal Monaco?
«La Juventus può battere chiunque e lo ha dimostrato. Non ci sono squadre fuori dalla nostra portata. Neanche una».
Avverte le stesse sensazioni che avvertiva a Manchester, quando alla fine della stagione la coppa la alzaste?
«È una situazione diversa. Là c’erano dei campioni incredibili: Cristiano Ronaldo, Rooney, Giggs, Ferdinand, Scholes. Io penso che invece adesso c’è una squadra. Noi siamo durissimi da battere».
Come l’Atletico Madrid un anno fa?
«Come l’Atletico Madrid. Ma con un finale diverso».
E perché invece vi battevano, perlomeno in Europa?
«Perché pensavamo di aver vinto già prima di giocare, ma ora abbiamo imparato, ne abbiamo parlato. Oggi siamo più tranquilli».
È la tranquillità di Allegri?
«È riuscito a far passare questo messaggio e la squadra lo ha capito, ma non fatemi fare paragoni con Conte. Allegri ci dice di giocare tranquilli, e che prima o poi il gol faremo. E noi adesso tranquilli giochiamo».
Si può sognare il triplete?
«Si può fare. Sognare non fa male».
Perché oltre alla Juve è cambiato anche lei, che prima in Europa non segnava mai?
«Perché adesso in Champions gioco sempre. A Manchester c’era un Ronaldo fantastico, veniva prima di tutti. Adesso identificano me come il leader, e mi dà fiducia anche se non mi sento tale: allo United ho vinto tutto, ho vinto sempre ed è quello che conta, non ho bisogno di sentire l’importanza del mio ruolo. Ho bisogno di vincere».
Ma questo è il miglior Tevez di sempre?
«No, quando era al Boca volavo».
È il Tevez più libero di sempre, perlomeno?
«I compagni e Allegri mi danno tanta fiducia, sono contento di come il mister mi chiede di giocare. Abbiamo fatto una specie di patto: quando ho la palla posso fare quello che voglio, quando difendiamo devo però eseguire compiti ben precisi, perché quando ci difendiamo abbiamo un ordine generale. Mi piace stare a contatto con la palla, se non arriva me la vado a prendere. Contro l’Empoli mancavano Pirlo e Marchisio e allora andavo a farmela dare da Buffon. È divertente».
Ha detto: “Identificano me come leader”. Ma lei non parla italiano, e al City era capitano senza parlare inglese: ma come fa?
«Mi faccio capire. A volte faccio fatica a concentrarmi, dopo la partita sono stanco e devo parlare usando il linguaggio che mi viene da dentro, quindi lo spagnolo. Ma leader devi esserlo sul campo, facendo una corsa di più quando la squadra ne ha bisogno».
E quando si dava alla macchia, che razza di leader era?
«Al City ho sbagliato. Non c’era più fiducia tra noi e ho reagito sparendo. Mi sono comportato male, lo so. Ma qui la fiducia non me l’hanno mai tolta».
E quando non segnava in Champions, non ha perso fiducia in sé?
«È un problema degli attaccanti che leggono sui giornali da quanti minuti non segnano. Io neanche me ne sono accorto di essere stato sei anni in Europa senza fare un gol».
In serie A invece ci sguazza: troppo facile, vero?
«Ma guardate che è molto più facile segnare in Premier: la palla va e viene di continuo, c’è un’azione di qua e una di là, il centrocampo non esiste, si pensa solo a fare gol. Qui capita di vedere un attaccante contro cinque difensori, è molto più difficile che in Inghilterra. Non buttatevi giù: il campionato italiano è sempre di alto livello».
Eppure lei sogna l’Argentina, no?
«Sono in Europa da tanti anni, ho bisogno della mia famiglia, di tornare a casa mia. Mi mancano mio padre, mia madre, mio fratello. Stare dieci anni lontano è dura. Non mi posso lamentare, tutti mi hanno trattato bene, ma la mia vita è là, la mia mentalità è argentina, il mio desiderio è Buenos Aires. Nemmeno il rapimento di mio padre ha intaccato questa volontà. Io e tutta la famiglia siamo tifosi del Boca, voglio giocare con quella maglia ancora una volta».
Nel 2016?
«Quando non so. Ma tornerò a casa. Certo, la gente preferirebbe che la famiglia Tevez si trasferisse in blocco a Torino. Qui sto bene, ma la mia vita è là. Io sono familiero, come diciamo noi».
Cosa andrà a fare? Il politico, magari?
«Politicamente sarei scorretto. Non è il mestiere mio. Però mi piacerebbe fare il presidente del Boca, a costo di correre il rischio che le cose vadano male come è successo a Passarella con il River Plate. Ma se ho un sogno è quello».
È contento di non dover parlare del suo passato di strada?
«Ne parlerei sempre. È più facile parlare del passato che del futuro».
Sta almeno saldando i conti con la Selección, che aveva lasciato dopo l’ultima Copa America?
«Nel 2011 non ero preparato, dovevo rimanere fuori dal torneo ma mi chiamarono all’ultimo e non mi sintonizzai con il gruppo. Adesso quello che cerco è una rivincita, ma stavolta me la prendo tranquilla, perché io devo dimostrare tanto».
Tevez deve ancora dimostrare qualcosa?
«Almeno in Nazionale penso di sì».
Ha capito chi sarà il vostro rivale per la Champions?
«Penso il Bayern».
Perché?
«In realtà non lo so esattamente. Quando torno a casa da Vinovo stacco dal calcio, non vedo la televisione. A me piace tantissimo giocarlo, ma guardarlo non tanto. Io di calcio non so niente ma so tutto di Violetta, la beniamina delle mie figlie. Vedremo se al piccolo piaceranno le partite, adesso è ancora presto».
Risulta difficile immaginare Tevez che canta Violetta.
«E mi immaginate ai fornelli? No, vero? Eppure sono un bravissimo cuoco, preparo di tutto, sono bravissimo anche con le ricette italiane. Tutti pensano che io sia un duro, uno stronzo, invece sono un romantico che vive per la famiglia. E non faccio in tempo ad arrivare nell’albergo del ritiro che già mia moglie mi scrive che le manco. Non sembra, ma io sono così».