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 2015  aprile 10 Venerdì calendario

La diplomazia targata Obama. Il presidente statunitense ha abbandonato l’illusione di esportare democrazia e diritti umani. Cerca di garantire la stabilità attraverso l’equilibrio tra potenze. Proprio come Metternich, artefice della Restaurazione europea. E come il suo studioso più celebre: Henry Kissinger

«Il massimo valore di un accordo con l’Iran sarebbe la prospettiva di concludere o almeno moderare tre decenni e mezzo di ostilità militante contro l’Occidente, e coinvolgere l’Iran in uno sforzo di stabilizzazione del Medio Oriente. L’Iran è una grande nazione con una cultura antica, una forte identità, una popolazione giovane ed istruita. Se riemerge come un partner, sarebbe un evento di portata storica». Questo giudizio viene dal più grande diplomatico vivente: Henry Kissinger. L’artefice del disgelo tra America e Cina, il regista dello storico viaggio di Richard Nixon a Pechino nel 1972, sembra pensare proprio a quell’altra «grande nazione con una cultura antica», che lui contribuì a trasformare da nemica militante dell’Occidente, a partner nella globalizzazione.
Proprio mentre esce in Italia il suo ultimo libro, Ordine mondiale (Mondadori), qui negli Stati Uniti c’è chi si è convinto che in questa fase Kissinger sia il vero maestro di Barack Obama. Che il presidente lo consulti e lo ascolti, non è un mistero. A 91 anni, l’ex segretario di Stato si è visto perfino affidare alcune missioni “informali”, e molto confidenziali, nei contatti con alcuni governi stranieri. Soprattutto, la nuova Dottrina Obama in Medio Oriente, sembra ispirarsi a quella realpolitik che si associa a tre nomi: l’austriaco Metternich e il francese Talleyrand nell’Ottocento, Kissinger nel Novecento. Di realpolitik sono impregnate le due svolte più recenti di Obama. Da una parte l’apertura verso Al Sisi in Egitto: implicito riconoscimento che un leader autoritario può garantire quella stabilità che le “primavere arabe” avevano sconquassato dal Cairo a Tripoli. Una svolta non da poco se la si paragona al discorso di Obama al Cairo nel giugno 2009, che ispirò speranze su una stagione di democrazia e diritti umani. La seconda svolta è appunto il quasi-accordo sul nucleare iraniano: ancora molto precario, visto che i repubblicani al Congresso Usa e gli irrigidimenti improvvisi di Teheran possono sabotarlo.
Sul New York Times, Ross Douthat ha parlato di metodo-Metternich a proposito del negoziato con l’Iran. (E quando si evoca Metternich, spunta sempre l’ombra del suo studioso più celebre, Kissinger). Obama sembra rassegnarsi al fatto che una nuova Pax Americana in Medio Oriente può funzionare solo giostrando sulle rivalità locali, contrapponendole tra loro e bilanciandole, per raggiungere di volta in volta equilibri temporanei che assicurino qualche forma di stabilità, sia pure fragile e provvisoria. Donde la sua quasi-equidistanza tra sunniti e sciiti, tra Arabia saudita e Iran, in molti conflitti dalla Siria allo Yemen. E abbandonando l’illusione di esportare democrazia, diritti umani, almeno nel breve periodo.
È una ragione per leggere con attenzione Ordine mondiale. In quest’opera monumentale, Kissinger reinterpreta la storia delle relazioni internazionali partendo dalla Pace di Vestfalia che nel 1648 mise fine alle (nostre) guerre di religione. Il filo conduttore del libro di Kissinger è la ricerca di un metodo per garantire pace e stabilità attraverso l’equilibrio tra potenze e la non-ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani. Ricostruendo la storia d’Europa, a partire dall’epoca in cui i fanatismi religiosi sul Vecchio continente non erano meno sanguinosi delle jihad contemporanee, Kissinger fa della Pace di Vestfalia un modello tuttora utile, ricco di insegnamenti. È da quel momento che si afferma definitivamente il riconoscimento delle sovranità nazionali. Con un corollario che oggi non è certo “politically correct”: se davvero rispetti la sovranità del tuo vicino, quel che accade dentro i suoi confini non ti riguarda. Non è compatibile con il dovere d’ingerenza umanitaria, insomma. L’etica e la diplomazia non sono mai andate molto d’accordo nella visione kissingeriana.
Grandi o piccoli, forti o deboli, tutti gli Stati vedevano riconosciuta nei trattati di Vestfalia la propria esistenza e dignità. Questo non significa che d’incanto regnassero pace e armonia. Ci furono altre guerre. Determinate il più delle volte da due fattori. Primo, l’emergere di una nuova potenza in ascesa, decisa ad affermarsi a scapito dei suoi vicini. Secondo, l’irrompere di un’ideologia “universale”, determinata a imporre i propri valori. I più grandi shock per l’equilibrio europeo vennero dalla Rivoluzione francese – portatrice di valori universali – e dal suo continuatore Napoleone. Al Congresso di Vienna nel 1815 fu aggiunto un nuovo elemento alle regole della Pace di Vestfalia: l’equilibrio di potenze. Concepito da Richelieu, applicato da Metternich e Talleyrand, l’equilibrio delle potenze era un delicato gioco di alleanze e contro-alleanze, finalizzato a evitare l’emergere di un singolo attore troppo forte. L’Inghilterra all’apice della sua forza divenne un arbitro, spostando di volta in volta le sue alleanze per impedire il predominio di una potenza continentale a scapito delle altre (Prussia, Austria-Ungheria, Francia, Russia). I principi della Vestfalia e dell’equilibrio fra potenze, continuarono ad essere destabilizzati, ogni volta che sulla scena emerse un’ideologia dalle pretese universali, che si considerava legittimata a interferire negli affari interni dei vicini: fascismo, nazismo, comunismo, nel XXesimo secolo. Oggi certamente la jihad non riconosce il principio “Cuius regio, eius religio”: applica la pena di morte agli infedeli, vuole riunire sotto un’unica teocrazia l’intero mondo islamico, cancellando le frontiere attuali fra Stati.
La Dottrina Obama può riuscire a organizzare un equilibrio delle potenze, e in questo modo consentire anche quel graduale disimpegno militare americano che il presidente ha sempre voluto? È ancora Kissinger ad esprimersi su questo, in un editoriale a due mani firmato con un altro ex segretario di Stato repubblicano, George Shultz, e apparso mercoledì sul Wall Street Journal. Ipotizzando che l’Iran non rispetti i patti, oppure che li rispetti solo per i dieci anni previsti e poi si costruisca la bomba atomica, Kissinger si chiede se l’equilibrio delle potenze sia replicabile in una corsa all’arma nucleare tra l’Iran e i vicini rivali (Arabia saudita, Egitto, Turchia). Lui ricorda l’equilibrio del terrore e della deterrenza durante la guerra fredda: là i protagonisti erano “Stati stabili”, mentre il Medio Oriente ci ha abituati alle “guerre per procura” condotte da milizie, bande, gruppi terroristici, alcuni dei quali esaltano il martirio. Uno scenario ben diverso dalla stabilità che Usa e Urss si garantirono nel timore del reciproco annientamento atomico. Un altro dubbio di Kissinger: «La tradizionale teoria dell’equilibrio tra potenze insegna che occorre rafforzare la parte più debole, non quella in ascesa». Che sarebbe l’Iran.
L’allievo Obama non ha finito di passare gli esami del professor Kissinger. Altro che disimpegno, l’anziano statista è convinto che «le passioni che agitano il Medio Oriente, unite alle armi di distruzione di massa, possono costringere l’America ad un coinvolgimento maggiore; la Storia non farà il lavoro che spetta a noi; la Storia aiuta chi sa aiutare se stesso». La sua non è una bocciatura senza appello. Come insegna Ordine mondiale, la diplomazia naviga da secoli nella complessità, nelle sfumature. La chiave perché la Dottrina Obama abbia successo, secondo Kissinger, sta nel condurre l’Iran non solo verso l’auto-limitazione militare, ma verso la moderazione politica, che cessi di destabilizzare attraverso le forze alleate (Hamas, Hezbollah, milizie sciite) tutti i paesi vicini. Aderendo, a sua volta, a una pace di Vestfalia.