Corriere della Sera, 9 aprile 2015
È morto Giorigo Salvini, il decano dei fisici italiani che studiò le particelle elementari
Per la piena fioritura di una società libera non bastano tolleranza e solidarietà; occorre che ciascuno coltivi «la curiosità, la gioia di capire, il miglioramento delle scuole, le nuove idee nella matematica, la visione sempre più ampia del tessuto dell’universo, la ricerca delle nostre origini, le intense discussioni sui doveri degli scienziati, e insieme a tutto questo la consapevolezza che quello che sappiamo è ancora molto limitato. Siamo ancora dei barbari nella conoscenza».
Queste sue parole (1992) caratterizzano non solo l’attività scientifica ma anche la parabola esistenziale di Giorgio Salvini, il decano dei fisici italiani scomparso la notte fra il 7 e l’8 aprile all’età di 95 anni.
Era nato a Milano nel 1920 e nella sua città si era laureato in fisica nel 1942. Dopo la parentesi del servizio militare nel Genio degli Alpini, aveva ripreso gli studi concentrandosi sulla fisica delle particelle elementari. Nel 1949 era stato chiamato alla Princeton University; ritornato dagli Usa (1951), aveva insegnato all’università di Cagliari, a quella di Pisa e alla «Sapienza» di Roma.
All’età di 33 anni aveva pressoché «creato dal nulla» l’elettrosincrotrone di Frascati, un modello di acceleratore di particelle anche per altri paesi europei. La passione per il rigore, l’audacia delle grandi visioni, temperata dall’attenzione estrema ai fatti sperimentali e non disgiunta dalla competenza tecnologica dovevano animare la sua attività lungo tutta la sua carriera all’Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn).
Ma per Salvini la fisica era solo una metà del cielo. L’altra era un impegno etico capace di dare significato alla ricerca. Eppure, scriveva, «una vita di altruismo reciproco potrebbe non essere altro che una specie di prigione illuminata ma noiosa», se non si coltivassero «originali attività intellettuali come la scienza e l’arte». Questo è anche il lascito intellettuale del volume L’uomo, un insieme aperto (Mondadori Università, 2010).
L’apertura di ogni essere umano pensante è garantita dal carattere drammatico di questo strano animale che è Homo sapiens, sempre insoddisfatto dei traguardi raggiunti e in cerca di nuove sfide.
Ho conosciuto Giorgio Salvini quando era presidente dell’Accademia dei Lincei e in sua presenza avevo tenuto, con un certo tremore, una relazione sul grande matematico e «meccanico» Archimede.
L’ho più volte rincontrato nelle sessioni estive del «Piero Caldirola International Center for the Promotion of Science», diretto dal fisico nucleare Elio Sindoni: nella villa di Varenna, a suo tempo offerta a Enrico Fermi, fisici, filosofi, teologi nonché poeti e artisti discutevano animatamente.
In queste occasioni Giorgio spaziava dal molto piccolo delle particelle (aveva anche lavorato al Cern di Ginevra sui bosoni W e Z, per i quali Carlo Rubbia avrebbe vinto il Nobel) alle grandi strutture studiate dall’astrofisica, prospettando i nuovi orizzonti di quella che oggi chiamiamo cosmologia quantistica. Nell’estate del 1994 aveva mandato un’esauriente relazione sullo sviluppo sostenibile, ma non aveva potuto partecipare di persona; la sera prima aveva comunicato di aver ricevuto una telefonata dal presidente Scalfaro, e aveva commentato: «Vedo guai in arrivo». L’anno successivo doveva prendere servizio come ministro dell’Università e della Ricerca, rimanendo in carica fino al 1996.
Mi ricordo che nella conferenza di Varenna di tale anno a un certo punto confidò a me e all’amico Elio come fosse terribilmente difficile, almeno nel nostro Paese, fare delle buone riforme contro l’inerzia della burocrazia, vera e propria negazione di quella creatività «drammatica» che per lui avrebbe dovuto contrassegnare l’umana avventura.