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 2015  aprile 09 Giovedì calendario

Quelle 439 persone che si sono uccisi per colpa della crisi. I suicidi sono il segno della metamorfosi di un’Italia che da troppi anni vaga in una terra di nessuno, lì dove il futuro non arriva

C’è un camposanto che conta almeno 439 tombe. Sono i nomi di chi si è ucciso per la crisi. Una crisi senza orizzonte che non guarda in faccia a nessuno. Non risparmia. Tocca, e uccide. È la storia degli italiani ad altezza d’uomo, quella che ormai se ne frega di uno zero virgola uno per cento in più o in meno di Pil, che non si lascia consolare da Draghi e non sorride a Renzi. Quella che non ce la fa. C’è un ateneo non di Stato, la Link University di Roma, che dal 2012 sta contando i suicidi legati alla crisi economica. Non ci si uccide solo per i soldi, ma questi pesano. È il fallimento di una vita. È non avere più speranza, futuro. È arrendersi, quando l’esistenza si riempie di troppe ombre. In tre anni i morti sono 439 e il numero sta crescendo velocemente. Nel 2014 sono 201, 149 due anni fa, 84 nel 2012. Non c’è (...)
(...) più una differenza di classe. Il 45 per cento sono imprenditori, il 42 disoccupati. Ci si ammazza perché non sai più come arrivare al giorno dopo, i conti dell’azienda sono senza speranza, probabilmente hai crediti con lo Stato per lavori fatti e mai pagati e debiti con le banche che ti chiedono di rientrare e per quelli come te non ci sono prestiti. Non sei più affidabile. Non dai garanzie. Non sai come pagare gli operai e sale la paura, la disperazione e il senso di colpa. Come è accaduto il 12 marzo a Verrua Po in provincia di Pavia. Gli ultimi passi di un uomo di 47 anni che la notte resta nel suo negozio di rubinetteria, guarda i conti, prende la pistola e spara. Lo trovano la mattina dopo i dipendenti. Il futuro è chiuso per lutto. Accade a Mestre per un sessantenne che vende ricambi d’auto. Non torna a casa. Allarme. I familiari chiamano i carabinieri. Lo trovano appeso con una corda a un montacarichi. È la storia di Giuseppe Campaniello che due anni fa si è dato fuoco a Bologna davanti alla commissione tributaria. Alla vedova qualche tempo fa è arrivata una cartella esattoriale di Equitalia: ci sarebbero questi 60mila euro da pagare. Che fa concilia? Le tasse non si fermano neppure davanti alle tombe.
La morte è una livella e questa lo è ancora di più. Marco aveva 26 anni. Meda è ai confini di Milano. Nessuno sa come sia riuscito a procurarsi una pistola. Era accanto al letto, vicino al corpo, sul tavolo una lettera: «Mi vergogno di fare questa vita. Non ho neppure i soldi per le sigarette». Anche Mattia di Camposampiero, padovano, non aveva un lavoro e ha lasciato un biglietto: «Scusate tutti». È stato trovato appeso a un montante di ferro nel garage dietro casa. Si può morire a 60 anni a impiccandosi a un albero di Soverato per aver perso il lavoro e a 39 anni ad Albidona per lo stesso motivo.
Non c’è più Nord e non c’è più Sud. Non c’è latitudine. L’unica novità è che si muore sempre più giovani. L’età media si è abbassata e l’ombra della crisi fa deragliare soprattutto chi ha tra i 35 e i 45 anni, ma sta crescendo la percentuale dei giovani. È solo il denaro? Forse ancora più forte è l’incertezza, la perdita di punti di riferimento, la metamorfosi di un’Italia che da troppi anni vaga in una terra di nessuno, il passato è passato e il futuro non arriva. Tornano in mente gli studi sul suicidio di Durkheim, Talcott Parsons o Merton e quel concetto di anomia che continua a rimbalzare. L’anomia è il disorientamento di una cultura e di una civiltà. È fare i conti con ciò che non sei. Non sei più.
Non si muore solo per i soldi. Quando i numeri salgono, quando il suicidio è un’emergenza sociale c’è molto di più che entra in gioco. È un paese che non si riconosce. È l’Italia che si guarda allo specchio e non ci trova più nulla. Il mese più difficile dicono sia aprile. Lo rivelano le statistiche. È questo mese, quando la primavera ti appare un inganno.