Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 09 Giovedì calendario

Il risiko del petrolio. Con 65 miliardi Shell si compra British Gas. A fusione completata, per fine anno, il polo anglo-britannico sarà la seconda major mondiale. Il dimezzamento dei prezzi greggio ha depresso le quotazioni azionarie, invogliando le major a comprare la produzione dei rivali

Una fusione stile anni Novanta scuote il mondo petrolifero. Royal Dutch Shell ha raggiunto l’accordo per l’acquisizione di British Gas, valutandola 65 miliardi di euro, in denaro ed azioni. Il 50% di premio sull’ultima quotazione di Bg – che ieri ha aperto a +40% e chiuso in rialzo del 27% – è per molti operatori e investitori un altro segnale perentorio, che annuncia il nuovo round di fusioni petrolifere. «Bg è sempre stata tra i nostri possibili e logici obiettivi – ha spiegato l’ad di Shell, Ben Van Beurden – quel che è successo negli ultimi mesi ha reso l’operazione convincente in ottica di valore». Il dimezzamento dei prezzi petroliferi ha depresso le quotazioni azionarie, invogliando le major a comprare la produzione petrolifera dei rivali, e reso più stringente la ricerca di economie di scala (l’acquirente ha stimato 2,5 miliardi l’anno di sinergie sui costi, e 30 miliardi di cessioni al 2019). A fusione completata, per fine anno, il polo anglo-britannico sarà la seconda major mondiale: Bg capitalizza 46 miliardi di dollari, che sommati ai 202 miliardi di Rds le permetteranno di avvicinare Exxon (360 miliardi). Sempre che gli americani, seduti su montagne di cassa, non facciano contromosse su British Petroleum, altra britannica rimasta spiazzata dopo anni di flirt con Shell.
Gli addetti ai lavori non si stupiscono: a valle di ogni tonfo del barile c’è un consolidamento dei produttori. Avvenne a fine anni ’80, poi a fine anni ’90. Per molti avverrà anche adesso, dopo che il Brent in nove mesi s’è dimezzato fino ai 57 dollari di ieri. «Finché i tassi restano nulli e le operazioni si finanziano a buon mercato, prevedo molte fusioni», ha detto James Bianco, presidente di Bianco Research a Bloomberg Tv. Sui listini è partita la ricerca di prede e predatori. Tra le società ritenute più appetibili ci sono le britanniche Tullow Oil, EnQuest, Premier Oil, Gulf Keystone, che hanno guadagnato fino al 10%. Ma a Piazza Affari ha beneficiato anche Saipem, +5,14% sull’onda lunga (+15% in tre sedute) dell’indicazione del futuro vertice con Stefano Cao ad e Paolo Colombo presidente, due ex della casa madre Eni che si insediano il 30 aprile.
Proprio Bg, società tra le più intraprendenti dopo la privatizzazione del governo Thatcher, fu la preda da tutti sognata quindici anni fa. Anche dall’Eni, che dopo piccole fortunate acquisizioni tentò, verso il 2004, un approccio sulla compagnia londinese forte nel gas. Altre missioni, qualche anno prima, avevano portato l’allora ad Vittorio Mincato a Parigi, per nozze alla pari con Elf (che poi l’Eliseo fece comprare a Total). Ma il grande merger il Cane a sei zampe non lo fece, per timore che il prezzo fosse eccessivo e che il Tesoro perdesse il controllo. Oggi la presenza del socio pubblico al 30% rende l’Eni un boccone difficile: ma i più esperti continuano a pensare che un’aggregazione, in un’industria tra le più globali e titaniche, resti attuale. L’esigenza è più pressante per Saipem, società di costruzioni di cui Eni ha il 43% e intende venderlo. Il crollo borsistico di fine 2014 aveva rallentato i piani, ma l’ad Claudio Descalzi ha ribadito a marzo che intende deconsolidare Saipem.