Corriere della Sera, 8 aprile 2015
Hoody Allen, il rapper che per cantare ha lasciato un lavoro a Google. Non viene dalla strada ma da una prestigiosa università con tanto di laurea in Finanza. Segno che l’hip hop è diventato pop e che anche la musica può cambiare l’America
Il ventenne americano di oggi ha davanti a sé due sogni. Il primo è quello di diventare un rapper. Il secondo quello di lavorare per Google. Steven Markovitz ha potuto scegliere. Il ragazzo viene da una famiglia bene di Long Island che gli ha offerto le migliori opportunità. E mentre era uno studente alla Pennsylvania University ha iniziato fare rap. E a farsi notare nell’underground e in rete. Nel 2010 arriva alla laurea in Marketing e Finanza. Fa girare il suo curriculum e il primo impiego che trova è a Google. Fa le valigie e parte alla volta di Mountain View. «Proprio mentre stavo facendo il trasloco mi ero reso conto che la carriera musicale iniziava a funzionare – racconta —. Però volevo comunque provare quel lavoro. Ci ho messo poco a capire che l’impegno con Google mi allontanava dal mio sogno: non potevo certo lavorare 20 ore al giorno, prima in ufficio e poi sulla musica. Ho preso una pausa e non sono più tornato».
Così Hoodie Allen, questo il suo nome d’arte («Amo Woody Allen, soprattutto quello dei primi film»), ha preso il posto di Steven Markovitz, si è fatto conoscere a colpi di mixtape di successo e di torte in faccia (al pubblico) nei concerti. E ora eccolo all’album di debutto, «People Keep Talking», già entrato nella Top 10 americana (laggiù è uscito in ottobre). «Abbiamo pensato a Mark Ronson, o a Pharrell e Timbaland quando produssero Justin Timberlake. Ho cercato quella stessa energia», dice.
Un rapper bianco. Una rarità come i Beastie Boys negli anni Ottanta, Eminem negli anni Zero o Macklemore, trionfatore dei Grammy 2014. «Quando ho iniziato io a 13 anni non era un cosa molto cool fare rap. Adesso tutti vogliono essere rapper: neri, bianchi, asiatici, ispanici...». Passi per il bianco, ma per l’opinione pubblica chi fa hip hop deve arrivare dalla strada non dai banchi di una prestigiosa università della cosiddetta Ivy League.
«È un riflesso del cambiamento del pubblico: ai concerti rap ci sono teen che non necessariamente sono cresciuti in periferie disagiate. L’hip hop è diventato pop in America ed è stato adottato da gente che 15 anni fa non lo avrebbe ascoltato», spiega. Le sue rime sono un concentrato di ego-trip, inni al disimpegno, goliardia, voglia di fare festa, una lista di citazioni lunga come l’elenco telefonico: amici, comici, campioni del basket e del football americano, attori, rapper... E persino campioni di pugilato: «Un modo facile per raccontare una qualsiasi vicenda emotiva», sorride.
Le ragazze sono viste come facili, pronte a saltargli al collo solo perché è quello famoso. In una rima paragona la fidanzata all’iPhone. È a rischio accusa di misoginia. «Nooo. “Ti tratto come il mio nuovo iPhone” vuol dire ti tratto bene. Proteggiamo il telefono dai graffi, ci mettiamo delle cover... Capisco però che sia facile essere equivocato perché spesso noi rapper diciamo cose stupide».
Hoodie è amico di Ed Sheeran. Con lui ha scritto «All About It», il cui video in cui lui e il cantautore inglese sono travestiti da improbabili supereroi è quasi a 8 milioni di visualizzazioni. «Da ragazzino impazzivo per le tartarughe Ninja, anche se la nuova serie non mi convince. Il mio preferito però è Batman. Non è un vero supereroe nel senso che non ha nessun superpotere, ma riesce sempre a risolvere le situazioni in cui si trova. E ha il miglior alter ego: un ricco newyorchese che la sera esce con le ragazze, non un nerd come l’Uomo Ragno o un finto giornalista come Superman».