Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2015
Il secondo Documento di economia e finanza dell’era Renzi è confezionato con l’occhio rivolto ancora una volta a Bruxelles. Questo Def può far conto su una serie di variabili esterne irripetibili e il governo non può fermarsi a metà del guado
Il secondo «Documento di economia e finanza» dell’era Renzi è confezionato con l’occhio rivolto ancora una volta a Bruxelles. La condizione, su cui di fatto il governo si gioca buona parte della propria strategia di politica economica, è che le riforme annunciate nel Def, «incentrate su mercato del lavoro, istruzione e incentivi alla ricerca», abbiano effetti diretti sulla crescita potenziale e sulla sostenibilità del debito. Da qui la possibilità di «deviare temporaneamente» dal sentiero di convergenza verso il pareggio di bilancio. È una delle opzioni contemplate dalla nuova flessibilità targata Bruxelles. La Commissione Ue porrà particolare attenzione alle riforme in grado di «colmare carenze strutturali», e di produrre «effetti sinergici grazie a una scelta adeguata della combinazione di politiche e della sequenza temporale dell’attuazione».
Non a caso, per la prima volta si fa esplicito riferimento alla «completa attuazione» delle riforme, un’aggiunta che sembra scritta ad hoc per un paese, come l’Italia, in cui storicamente permane un notevole gap tra il numero (sostanzioso) delle riforme approvate dal Parlamento e l’elenco (decisamente più contenuto) delle riforme entrate pienamente in vigore. Quella che il governo si accinge a mettere in campo è dunque una scommessa non da poco. Vanno bene le variabili esterne, in primo luogo il calo dei tassi e l’iniezione di liquidità della Bce. Ma attenzione. Come ha osservato Mario Draghi nel corso della sua recente audizione in Parlamento, questa spinta esogena ha carattere ciclico e non strutturale. In poche parole, quei paesi che alla fine del programma di acquisto di titoli sul mercato secondario (autunno 2016) non avranno messo mano a riforme strutturali vere e incisive, torneranno alla casella di partenza. Anche la stessa clausola di flessibilità sulle riforme non vale per sempre, occorre guardagnarla sul campo, con azioni incisive sul fisco, al pari della giustizia civile, riforme che accanto al mercato del lavoro sono valutate da Bruxelles e dai mercati con particolare attenzione. Pur nei limiti di un esercizio previsionale difficile da realizzare ex ante, occorrerà convincere i partner europei che da qui al 2020 si possa realizzare lo 0,4% in più di Pil grazie alla riforma della pubblica amministrazione. Anche lo 0,3% in più attribuito al capitolo dell’istruzione va motivato e realizzato con grande precisione.
In poche parole, se si considera che questo Def può far conto su una serie di variabili esterne pressoché irripetibile nel loro effetto simultaneo e cumulato, non ci si può certo fermare a metà del guado, facendo leva su quanto realizzato finora. La partita delle riforme si incrocia con quella dei tagli alla spesa, altro punto decisivo nel giudizio della Commissione Ue e dei mercati. Per disinnescare le clausole di salvaguardia si punta ora a realizzare almeno 10 miliardi di tagli alla spesa corrente. Operazione anch’essa tutt’altro che agevole, da condurre finalmente con un approccio selettivo, poiché è del tutto evidente che il ricorso a tagli lineari e indifferenziati avrebbe effetti recessivi al pari dell’aumento dell’Iva.