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 2015  aprile 08 Mercoledì calendario

Il federalismo fiscale è tutto da rifare. Non ha assicurato la riduzione e nemmeno la stabilizzazione del prelievo subito dai cittadini. Dall’Irpef alla Tasi. Non ci resta che sperare nella Local Tax

Negli ultimi cinque anni Regioni, Province e Comuni hanno subito un taglio dei trasferimenti dallo Stato centrale di circa 25 miliardi di euro. E hanno continuato a rifarsi aumentando le imposte locali. Per non tagliare i servizi, si giustificano. Un anno fa, in un’audizione presso la commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, il presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, ha raccontato bene il fallimento della riforma varata con la legge 42 del 2009. L’idea era quella di responsabilizzare le amministrazioni decentrate trasferendo loro funzioni e corrispondenti entrate proprie per farvi fronte. Il tutto però rispettando il principio dell’invarianza della pressione fiscale. Quindi, se aumentavano le addizionali Irpef locali doveva diminuire l’Irpef nazionale. Ma le cose sono andate diversamente.
«Non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e fisco locale – spiegava Squitieri – ma anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate di competenza degli enti territoriali sia di quelle dell’amministrazione centrale». E così la pressione fiscale che dal 38% del prodotto interno lordo nel 1990 è arrivata al 43,5% «appare imputabile per oltre l’80% alla dinamica delle entrate locali», che già nel 2012 pesavano per il 15,9% su tutte le entrate, cioè il triplo rispetto al 1990.
Insomma, il federalismo fiscale non ha assicurato la riduzione e nemmeno la stabilizzazione del prelievo subito dai cittadini. Basti pensare che nel 1998, quando l’addizionale Irpef regionale debuttò, l’aliquota era dello 0,5% e ora può arrivare al 3,33%, per un prelievo medio di circa 380 euro a testa, con punte di 550 euro nel Lazio. Alle quali si aggiungono le addizionali Irpef comunali (fino allo 0,8%) per un importo medio di altri 170 euro, con punte di 220. Per non parlare delle imposte sulla casa.
Ci avevano detto che la Tasi, la tassa che il governo Letta, sostenuto dal Pd e dall’allora Pdl, si inventò per dire che non si sarebbe più pagata l’Imu sulla prima casa, avrebbe ridotto il prelievo sugli immobili. Ma anche qui i fatti hanno smentito le promesse. Il carico fiscale sulla prima casa si è alleggerito di appena 500 milioni che però, paradossalmente, sono stati pagati in meno da proprietari di case con rendite catastali alte mentre quelli con abitazioni di minor pregio hanno mediamente pagato di più di prima, perché sono state tolte le detrazioni fisse. Sulle seconde case l’imposta è aumentata molto. E complessivamente la Tasi nel 2014 è costata ai cittadini 25,2 miliardi, il 15% in più dell’Imu 2013 (quando non si pagò sulla prima casa) il 7% in più del 2012 (quando l’imposta colpiva anche l’abitazione principale) e il 157% in più dell’Ici 2011 (che fruttò 9,8 miliardi). Adesso il governo Renzi promette che nel 2016 semplificherà tutto con un’unica tassa, la local tax. Speriamo bene.
Intanto si profila un nuovo scontro con le Regioni e i Comuni, che già faticano ad attuare i tagli previsti dall’ultima legge di Stabilità. Che, su 16,6 miliardi di riduzione complessiva della spesa pubblica per il 2015, ne caricava 8,1 sulle spalle di Regioni, Comuni e Province. Le prime hanno dovuto tagliare 2,3 miliardi nella sanità. E il ministro, Beatrice Lorenzin, la settimana scorsa in tv a 2Next alla domanda «il federalismo ha fatto bene o male alla sanità?», ha risposto: «Di sicuro chi stava male sta peggio. Questo federalismo va cambiato». Il governo vuole farlo con la riforma costituzionale, che tocca anche il Titolo V. Infine, pochi giorni fa, dopo la definizione del riparto dei tagli a carico dei Comuni, i sindaci dei piccoli municipi hanno lanciato l’allarme sul rischio che centinaia di enti locali vadano in default.
Per dirla con Gino Bartali, questo federalismo «l’è tutto da rifare».